Bisogna dirlo a bassa voce, ma il 2020 per me è stato un anno felice, a tratti felicissimo.
Bisogna dirlo a bassa voce perché è giusto e necessario chiedersi quanto può essere felice un periodo che ha portato alla collettività dolore, paura, perdite e problemi, e ancora ne porterà. Io ho provato a chiedermelo e ne sono uscita con una risposta che qualche anno fa avrei bollato come new-agismo, ma a togliere l’inglese e l’ismo c’è molto da imparare, e certamente che la felicità non è data e non esiste in astratto: si costruisce ogni giorno. Soprattutto, bisogna aver voglia di essere felici e bisogna farsi il mazzo per riuscirci, perché solo a 20 anni, e solo per alcuni, persino la gioia è gratis.
Da un po’ di tempo, io ho scelto con risolutezza di essere felice – di eliminare o almeno limitare quello che so non potrà rendermi serena, di provare a muovermi verso quello che mi fa stare bene, di trovare la gioia dove so può essere o nascere. Ci sono svariati corollari pratici – smettere di frequentare le persone sbagliate, di fare un lavoro che non piace, di coltivare un’idea di sé irrealistica – ma siccome questo è un post sul mio 2020 felice e non un manuale di autoaiuto con i corollari pratici potete sbrigarvela da soli, o al limite con l’aiuto di Brezny: ognuno ha i suoi, d’altronde.
L’ultima volta che ho scritto su questo blog, che certo mi costa di hosting troppo rispetto alla frequenza con cui metto nero su bianco i miei pensierini per il mondo, ero a Marsiglia. Forse vale la pena di partire da lì, da un’estate in cui ho deciso di fare quello che da anni dicevo che avrei voluto voglia di fare senza mai averne il coraggio: ho affittato una casa in Francia, sono stata lì a scrivere e a gironzolare, a passeggiare da sola per i Calanchi e a perdermi in mezzo a cale e a calette, a guardare il tramonto dagli scogli di Malmousque, a infilarmi a vedere documentari in un cinemino di Cours Julien capendone forse un terzo, a bere birrette con gente che conoscevo poco o niente, a cantare a squarciagola pedalando lungo la corniche, fermandomi ogni tanto a guardare il mare e a pensare – appunto – quanto cavolo fossi felice. Perché era estate, le bare sui camion militari sembravano lontane, stavo imparando una lingua e scrivendo una cosa che quando la rileggevo la mattina pareva avere una sua dignità, ero bella, ricciola e abbronzata, in uno dei posti più belli del mondo – del mio mondo, almeno.
Marsiglia è arrivata dopo mesi passati a raccontare lo sconvolgimento inaspettato del Covid agli stranieri, con Gabri, pagati per fare un mestiere entusiasmante, per cercare di capire le cose, per essere gli occhi di chi non è lì, come diceva un mio vecchio maestro, e centinaia di altri, suppongo. C’è un egocentrismo insopportabile nel giornalismo, e lo vedo benissimo negli altri augurandomi senza certezza alcuna di essere almeno un po’ diversa, ma quello è stato un momento bello, professionalmente: non ho riletto quanto scritto in quei mesi, anche se Serge ne ha fatto un librino, e credo che mi imbarazzerebbe farlo, però so di aver lavorato con l’onestà, con l’impegno e con tutta la sincerità di cui ero capace.
Che il lockdown a Milano sia arrivato il giorno dopo il mio quarantesimo compleanno, il lunedì dopo un weekend in cui avevo portato 40 amici in un borgo toscano per festeggiare tutti insieme, e che durante il fine settimana sia scoppiato il caso di Codogno, e uno dei miei invitati sia stato richiamato a Milano perché uno dei suoi colleghi conosceva il paziente zero, e che tutto quello straordinario weekend sia stato caratterizzato da me che gironzolavo con il mio fido microfono gridando “Aggiornamento coronavirus” e dando i numeri dei contagi ogni tot nell’inconsapevole ilarità generale, e che durante il weekend i numeri siano cresciuti al punto che mentre tornavamo a Milano dopo una festa mitica, suonata dal Branzino, di colpo ci fossero le camionette militari sull’autostrada, bè, diciamo che è una specie di perfetta rappresentazione concentrata del tasso di assurdità di questo 2020, rispetto ai canoni standard con cui siamo abituati a valutare le cose.
Il 2020 era iniziato con me e Angela a fumare fuori da una vecchia chiesetta sulle Dolomiti, in un paesino minuscolo di cui con il solito gruppo avevamo occupato pressoché ogni posto letto, e tra le tante cose di cui stavamo fantasticando in quel momento un mio trasloco a New York sarebbe stato molto più probabile di uno a Roma. Non serve che dica com’è finita: avevo sulle spalle il mio zainetto con acqua, pomodori e ciliegie, diretta verso Les Goudes – il Paradiso in Terra, a proposito – quando m’hanno offerto un lavoro che in quel momento mi sembrava più inverosimile dell’ipotesi di andare a vivere in una specie di scantinato con un marsigliese e la figlioletta di due anni – una prospettiva che stavo effettivamente vagliando. Scrivo da Trastevere, e mentirei se dicessi che avrei preferito all’altra maniera.
Tutti mi chiedono com’è Roma, e non si può rispondere molto più di: stupenda e infernale. Non c’è il minimo dubbio che sia la città più bella del mondo, capace di sostenerti solo perché ti guardi intorno e la bellezza è tanta e tale da rimetterti temporaneamente in sintonia col cosmo. Non c’è dubbio nemmeno che Roma sia capace di succhiarti il sangue, con un traffico che rende Milano un paesotto, un cinismo bello solo nei film e un problema di spazzatura di cui ancora non riesco a capacitarmi; un posto immenso, complesso, stratificato; un posto in cui ho pochi riferimenti, non conosco le strade, mi perdo a ogni incrocio, sento talvolta una mancanza struggente della mia casa milanese, delle piante che ho cresciuto con amore e poi abbandonato, dei miei vinili, della mia routine, del percorso che ho fatto per anni quando andavo a correre, degli amici così intimi da presentarmi a casa loro in pigiama dicendo Non ho voglia di cucinare per poi restare ore a chiacchierare e dormire sul loro divano. Quando ad aprile 2019 mi sono quasi ammazzata in un incidente d’auto, Franci mi ha chiamato e chiesto: “Di cosa hai bisogno, dimmi cosa posso fare, quando uscirai dall’ospedale sarà estate, vuoi che vada a casa a farti il cambio degli armadi?”. Chiedimi cos’è l’amicizia, ti risponderò il cambio degli armadi.
Non so cosa c’è dall’altro lato della staccionata del 2020: quando sono arrivata, dopo aver singhiozzato per tre giorni perché non avevo voglia di rinunciare a una vita in cui stavo bene per una di cui non sapevo nulla sapendo però che non provarci nemmeno sarebbe stato sciocco, ecco, quando sono arrivata avevo paura della mia ombra. Penso che fosse passato poco più di un mese la sera in cui, un po’ brilla, ho scritto un messaggio a un amico dicendogli: “Ma lo sai che sono felice qui?”.
È vero. Non sono nel mio comfort, ma sono felice di aver deciso di provare a costruirne uno nuovo. A dispetto del momento storico, della malinconia per il mondo di prima, delle complicazioni pratiche del coronavirus, del fatto che alla nostra età tutti hanno già la loro vita, e conquistare uno spazio nella loro con naturalezza è difficile. A dispetto del fatto che sono sola e che finalmente, a 40 anni, ho capito che non è colpa mia. Le donne felici e indipendenti fanno un sacco di paura ai maschi, e non per qualche stereotipo di genere da manuale di self help, bensì perché anche gli uomini faticano a costruire la loro felicità e spesso la credono legata all’essere indispensabili, non rendendosi conto che anche chi sta bene da solo può aver voglia di infilarsi nel mondo altrui. Purché sia un mondo in cui stare comodi.
E a proposito di mondi, quest’anno niente tradizionale classifica delle canzoni da portare sull’isola deserta. Una canzone però ve la lascio, e con l’isola deserta ha parecchio a che vedere: Stormi, IoSonoUnCane. Ci sono arrivata con qualche anno di ritardo, a questo cantautore eccezionale, ma l’intensità con cui l’ho ascoltato guardando il nitore abbacinante del mare, a Marsiglia, compensa per tutto il tempo perso.
Buon 2021 a tutti. Siate felici, o almeno provateci.
#1 by Miki on December 27, 2020 - 06:28
Grazie Gea, anche a te!
Che bel racconto, tutto d’un fiato!