Non ci resta che Insorgiamo


Qualcuno si è lamentato che nel 2023 non ho fatto il consueto post di fine anno (Marco, grazie: è incredibile che ti ricordi ancora di leggere questo blog una volta all’anno, cioè più di quanto effettivamente ci scriva), e in effetti è vero: non avevo alcuna riflessione buona da fare. Per gli altri, o per me stessa. Il 2023, ho dovuto constatare con una certa amarezza, è stato per me un anno veramente horribilis, per ragioni personali e non. Per ragioni, direi, che mi legano al discorso pubblico in cui ho scelto di stare, in cui sento il dovere di stare; che riguardano il mondo in cui viviamo, di cui non basta più dire stancamente “è impazzito”, perché, benché condivida tutta la stanchezza, è invece un mondo lucidissimo e nettissimo nelle scelte che fa. Il termine mondo è certo largamente impreciso: parlo di Stati, di istituzioni politiche, di chi fa le politiche, di chi le commenta, di chi ne è governato. Parlo di soggetti terzi, ma anche di amici, di famiglie, di conoscenti. Parlo della difficoltà a non farsi schiacciare dalla propaganda, parlo della difficoltà a mantenere un’autonomia di giudizio, parlo della dinamica della formazione delle opinioni, in questo mondo in cui la scelta alla base è quasi sempre stare coi forti e non coi deboli; opinioni viziate, poco informate, basate su luoghi comuni e accettazione di immutabilità,  “è così”, “non ci si può fare niente”, “non si può dire”. Opinioni che diventano il terreno su cui si prendono e impongono decisioni, sulla cui base poi si giudicano e sanzionano gli inadempienti, in un circolo vizioso che sembra non lasciare scampo, e a me personalmente fa male nel profondo. Perché non è il mondo in cui voglio vivere. 

E quindi, diciamolo subito sempre per il solitario, affezionato lettore, la canzone del 2023 era quasi una scelta obbligata: I fought the Law. D’altronde, non c’è niente che abbia ascoltato quanto i Clash l’anno scorso, invidiando in maniera struggente i tempi in cui potevi entrare in un posto e sentirli suonare, e ritrovarti in quella comunità, in quella lotta che aveva visto in anticipo l’orrore che stavamo costruendo, e che i ruggenti anni Novanta avrebbero consacrato come nuova cornice del sistema. Come sistema stesso.
Quel senso di comunità l’ho ritrovato, pochi giorni fa, nel Capodanno che abbiamo celebrato alla ex GKN, fuori da una fabbrica occupata da due anni e mezzo, trasformata dalla tenacia, dalla forza e dalla consapevolezza del Collettivo nel migliore laboratorio per costruire qualcosa di diverso, sulla base di esperienze di partecipazione e di condivisione, di lotta giusta, dura, onesta contro chi pensa che sia normale licenziarti via whatsapp in piena estate, e poi sparire nelle nebbie di un board meeting, senza mai rendere conto. Di chi non ha capito che la violenza è anche quella che viene esercitata contro le vite dei lavoratori che di colpo sono privati di salario, dignità, libertà. Mi pare un punto centrale: non si fa che sentire critiche alla violenza sui social network (esiste, confermo), o nei cortei quando viene rotta una vetrina (se ne parla meno quando la polizia carica gli studenti, i docenti, i manifestanti in genere); ma la violenza esercitata sulle persone, sui lavoratori, sui migranti, sugli indigenti a cui vengono tolti tutti gli aiuti, la riconosciamo o no? 

La notte di Capodanno, alla ex GKN, Dario Salvetti ha fatto il discorso politico più emozionante che mi sia capitato di ascoltare in un sacco di tempo: leggetevelo, è qui. Ci vogliono cinque minuti, e bastano a capire cosa dovrebbe essere e dire la politica. Invece l’altra sera non c’era nessuno volto noto di opposizione e/o maggioranza a testimoniare vicinanza agli operai: eravamo 3 mila persone, tra cui qualche giornalista, qualche intellettuale noto, docenti universitari, i loro studenti, persone arrivate dall’estero, ma non i decision maker che, da tempo, avrebbero potuto cambiare il corso delle cose. 
Le cose cambieranno lo stesso, forse, spero, perché quella lotta ha contagiato una parte del Paese e ha segnato una strada. Ma la sfida è che diventi un percorso comune, che le istanze di cui si fa portavoce si allarghino e diventino patrimonio condiviso: possibile che tutti blaterino di valori e poi si consenta a qualcuno di licenziare via whatsapp o di tagliere la sanità, cioè in parole più concrete si decida scientemente di privare le persone di cure spesso essenziali? Si decida, cioè, di aggravare la loro condizione? E perché, se non per favorire i privati, se non qualcuno in specifico certamente un mondo, un sistema, una cornice di rapporti di forza?

Ecco, lo vedete perché non volevo scrivere? Adesso siete amareggiati anche voi. E, se così fosse, sarebbe giusto. Credo che l’unico modo per resistere sia convogliare questa amarezza nella consapevolezza di quello che non è accettabile e che va respinto, anche se a volte può significare non essere compresi, essere lasciati soli o scegliere volontariamente di allontanarsi. 
Il motto del 2024, che i lavoratori GKN hanno trasformato da tempo in una chiamata popolare, è INSORGIAMO. Non è mai stato così importante, da quando io ricordi. Almeno non per me. 

 

 

(1 gennaio 2024, pochi minuti dopo la mezzanotte, Campi Bisenzio)

P.S. Alcune di queste cose le ho scritte, articolandole diversamente ed entrando più nel merito, in questo thread. Prima o poi o farò diventare anche un post, ma se volete leggerlo, intanto…

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