Dispacci, Marsiglia #1


Sveglia alle 5.40, treno alle 7, oggetti dimenticati pochi, almeno di cui mi sia già accorta. 
Milano, Genova, Ventimiglia, Mentone, Montecarlo, Nizza, Marsiglia; dodici ore casa-casa: c’è il Covid, il diretto non circola, il Thello fa un’ora quasi di ritardo, tutta nel tratto italiano. 
Litigando con la mascherina, congelata dall’aria condizionata (ma non era proibita per via del virus?), con il naso appicciato al vetro zozzo lascio che il paesaggio mi imbocchi una madelaine dopo l’altra: è una strada che conosco questa, c’è dentro un sacco della mia storia.
Per molti anni l’ho fatta via mare; nell’ultimo decennio via terra. Un’estate coi miei abbiamo fatto una regata che partiva dal sud della Francia e arrivava a Tunisi, non ricordo se è lo stesso anno in cui siamo stati parecchio tempo a Porquerolles, uno dei posti più belli che abbia mai visto, o quello della Rue de Jasmin. Fatto sta che eravamo sempre nei pressi di Nizza, ma a Nizza non ci fermavamo mai. Andavamo a Mentone appositamente a prendere le marmellate – speciali, buonissime – ma Nizza niente: è brutta, cementificata, senza alcunché da vedere, dicevano i miei. Mio fratello però aveva sentito che a Nizza si trovasse il parco acquatico più grande d’Europa – chissà poi da chi, Internet non esisteva ancora, non so chi fosse la sua fonte – e cercavamo di convincerli a lasciarci andare almeno una volta. 
Figuriamoci! Ce ne andiamo al museo di Picasso ad Antibes,  e poi stasera si mangia bouillabaisse, tagliava corto mio padre, più o meno tutti gli anni. Magari aveva ragione – anche se i pedagoghi oggi direbbero che non rispettava il nostro volere e che non c’era abbastanza ascolto – ma è la sufficienza con cui lo diceva che mi è rimasta dentro.
Ci sono passata parecchie volte a Nizza, da grande, però non mi è mai venuto in mente di andare a vedere quel parco acquatico. Finché mel 2012, di ritorno da Arles, ci fermammo con Edo, Bengy e Naima a mangiare coquillage sulla spiaggia, e fu l’inizio del mio armistizio con la città. E con la Costa Azzurra.
La costa è più bella di come l’avessi interiorizzata da ragazzina durante vacanze forzate in barca, è più bella anche della riviera di Ponente, è più bella anche se tutto il tratto tra Cannes e Montecarlo è deturpato da palazzoni di cemento che non potevano essere belli nemmeno quando li hanno costruiti, negli anni 70. Una sera con un amico sono partita dalla Liguria per andare a Montecarlo a cena: ci teneva lui, c’era la sua madrina di battesimo. Montecarlo era un altro di quei posti che con i miei avevamo sempre ignorato, forse con sprezzo; quando infine Diego e io ci siamo infilati per quelle stradine strette piene di caseggiati bianchi orrendi ho capito perché. 
Eppure in Costa Azzurra sono belli il mare, i triangoli di spiaggia incastonati tra un promontorio e l’altro, gli scogli che affiorano di sorpresa. Sono belle le montagne, sopratutto, che in Liguria sono brulle e puntellate di case, e qui invece diventano maestose falesie di roccia che incorniciano il paesaggio senza opprimerlo. È il mistero di questo pezzo di Francia: ci sono colate di cemento ovunque, eppure la natura resta preponderante.
Me ne sono accorta con chiarezza quando ho iniziato ad andare ad Arles in macchina tutti gli anni: passavi il confine ed era subito un altro mondo, pur avendo fatto pochi chilometri. A me gli altri mondi fanno sempre bene: all’animo, alla creatività, alla mia predisposizione verso gli altri. Fanno così bene che mi piace persino il font con cui sono scritti i cartelli delle loro stazioni ferroviarie: minuscolo, più leggero del nostro, meno rozzo. Francese, raffinato. Anche se a due passi c’è la gendarmerie in assetto antisommossa che porta via gli ambulanti. 
A Marsiglia è diverso però: il font è sottile ma è subito chiaro che non c’è nulla di delicato qui. Almeno non nel senso tradizionale del termine. 
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