In tutti i Paesi asiatici il clacson è usato con una certa libertà: più che un segno di avvertimento, un’allerta permanente. Il che, peraltro, rispecchia la natura del traffico.
In India tuttavia è qualcosa di più, quasi un segno di mascolinità: più suoni, più sei uomo.
Ed è così che oggi l’autista del bus Chennai-Tiruvannamalai, sul quale incautamente ci siamo sedute in prima fila, mi ha totalmente stordito: e non basta che abbia messo prima gli auricolari e poi addirittura i tappi per le orecchie, sono arrivata a destinazione frastornata come mai mi era successo per il rumore, con quel senso di nevrastenia da il prossimo che dice una sillaba lo meno che deve essere proprio la spiritualità che tutti vengono cercando quaggiù.
(Il prossimo, per la cronaca, era l’autista di un tuc tuc che dopo tre minuti di contrattazione serrata sul prezzo mi ha accolto dandomi una gomitata nell’occhio con l’orzaiolo, ma la divinità hindù deve averlo protetto dalla mia possibile reazione).