È strano, o forse inquietante, come la vita sembri scorrere normale nei posti che normali non sono più.
A una settimana dal referendum – forse truccato – con cui Erdogan ha di fatto ottenuto il potere quasi assoluto, nell’aeroporto cittadino di Istanbul centinaia di persone vanno e vengono, acquistano oggetti, provano profumi, rossetti, auricolari per l’iphone.
Nell’unico ristorante con una connessione wifi, un tavolo è occupato da un gruppo di stranieri con le teste rasate che sembrano dipinte, o ricoperte di mercurio cromo: hanno per lo più barbe lunghe e visi scuri, forse arrivano dagli Emirati o da altri Paesei arabi. Scopro con incredulità che si tratta di trapianti di capelli: l’industria qui è evidentemente florida e forse economicamente più accessibile – Gabri, che passava da questo stesso aeroporto poche settimane fa, ha visto parecchi trapiantati che poi si sono imbarcati per l’Europa, Italia inclusa – e la Turchia sta diventando la mecca dei pelati loro malgrado.
Mentre Erdogan rinchiude i giornalisti, vieta le manifestazioni, erode i diritti, mezzo mondo corre qui per farsi rimettere i capelli: islam, capitalismo e tricologia.