Archive for July 21st, 2010

Beirut/Dispacci #2

soundtrack: Everything in its right place

Abbiamo iniziato a lavorare, con una massima in testa: “I soldi non è come li fai, è come li spendi”. Ogni ulteriore interpretazione è lasciata ai singoli (ma senza spingersi troppo in là con la fantasia). Intanto, per spianare la mia carriera e diventare presto la firma di punta del NYT, mi sono assicurata di rompere lo specchio del bagno stamattina. Mentre giravamo per il quartiere alla ricerca di uno nuovo ci siamo imbattuti in una signora preoccupatissima per gli anni di disgrazia che mi sarebbero piovuto addosso; costernata e animata, in un inglese stentato ma gentilissimo, mi ha spiegato che avrei potuto evitarli solo andando in casa e recitando la seguente formula magica: Miciomiciobaubaucasa. Queste esatte parole, dette da una libanese. Io ed Edo ci siamo guardati increduli, traducendo come due cretini per lei: cat cat, dog dog, house house. Ovviamente appena rientrati ho preso in braccio il gatto, Asfur, e ho ripetuto il mantra con massima convinzione. Non sia mai che funzioni.

Beirut mi piace, sempre di più. La mia fascinazione per i posti disordinati e ammonticchiati è portata all’estremo dai palazzi sventrati accostati alle case dei primi ‘900, quelli che valsero alla città il nome di Parigi del Medioriente. I libanesi cavalcano la nomea cercando di usarla da traino per riportare qui i turisti; ho il sospetto che in merito le statistiche ottimistiche distribuite dal ministero mentano, perché se ne vedono davvero pochini, forse tre o quattro finora. Ieri avremo fatto quindici chilometri a piedi, fermandoci a parlare qui e là con personaggi di ogni lignaggio; oggi abbiamo mangiato il miglior felafel della città lungo la green line, la strada che divideva la città in due negli anni della guerra; poi, in un baretto arabissimo Edo ha giocato a backgammon con un libanese, battendolo. Per i cinque minuti successivi abbiamo temuto che tornasse indietro con una pistola per regolare i conti, invece si è limitato a sparire, per non subire l’onta della sconfitta.

In casa l’elettricità salta tre ore al giorno e non si può buttare carta nel water, il che non è proprio simpaticissimo, ma dopo i bagni della Cambogia giuro che non mi impressiona più quasi nulla. Continuo a sperare di incontrare Robert Fisk per strada, e che con un semplice sguardo capisca che potrei diventare la migliore corrispondente che l’Ap abbia mai avuto. Per il momento incontro invece gli sguardi arabi, che non sono propriamente delicati. Ah, la frase del secolo è: War is oldfashioned. Ce l’ha detta un tizio assurdo che vive in una vecchia mercedes dotata di tutti i confort su la Corniche, il lungomare; anche questo temo non sia vero – qui si aspettano un nuovo attacco per settembre – ma di cose serie parleremo più in là.

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Beirut/Dispacci #1

Con un’ora e mezza di ritardo rispetto al previsto, e quattro chiamate senza risposta di Edoardo sul telefono, sono arrivata a Beirut alle 3 di notte. Ad attendermi il tassista che mi aveva mandato a prendere, un tizio di mezza età con un sorriso largo e un po’ molle, incapace di parlare altro che arabo. Il che ha iniziato a essere un problema a nemmeno tre minuti dall’uscita delle porte scorrevoli, quando si è accorto di non ricordarsi dov’era parcheggiata la macchina: girava avanti e indietro per il parcheggio dell’aeroporto emettendo suoni gutturali, mentre io sudavo copiosamente, con 20 chili di zaino sulle spalle, cercando di saltargli dietro. Dopo dieci minuti ho rinunciato e mi sono seduta su un muretto ad attenderlo, salvo poi farmi prendere dal panico quando mi è sparito dalla vista: così mi sono messa a correre anche io, e alla fine sembravamo due pazzi in giro alle 3 di mattina per un parcheggio.

Ma il meglio doveva arrivare. Trovata la macchina, il taxidriver ha imboccato con calma una delle decine di arterie dissestate di Beirut sud, dove le strade non hanno nome (e non è una citazione romantica dagli U2) e ogni cinquecento metri i militari ti fermano a un checkpoint, ché quello è territorio di Hezbollah. Ci ho messo mezz’ora di percorso, e un borbottio crescente, a capire che il bonaccione che avrebbe dovuto portarmi a casa non aveva la minima idea di dove casa fosse, e quando l’ho capito la stanchezza e l’ironia della situazione mi hanno scatenato un riso tra l’isterico e l’adolescenziale, irrefrenabile (nel frattempo Edo era a sbronzarsi a una festa in cui gli ospiti d’onore erano i Gorillaz, così, tanto per dire). Tra un singulto e l’altro provavo a interagire con il buonuomo, in un panarabofrancoinglese che suonava più o meno così: Ecutè monsieur, tu know ou home is? Call, mobile mobile, Inshallah qualcun answers. No surprise, in effetti non ci capivamo. Per farla breve, comunque, alle ore 4.45, e cioè dopo un’ora e quindici minuti esatti – giurosuddio – che vagavamo senza meta, sono riuscita a chiamare un’amica che parla arabo, e abbiamo concordato lo scambio della merce – le mie chiappe sulla macchina degli amici di Edo, trenta dollari a lui per non vederlo mai più – a un benzinaio di Beirut sud. E comunque il tassista era genuinamente dispiaciuto, e mi è parso davvero un’ottima persona: se solo avesse saputo le strade.

Detto questo, Beirut è una città estremamente accogliente e affascinante. Non si può dire che sia bella – un agglomerato di cemento segnato da colpi di mortaio e katyusha, dove è meglio, dove è peggio un agglomerato di cemento e specchi per attirare i miliardi dei sauditi con resort sul mare che i tamarri abboccano meglio che al Billionaire – ma di certo va scoperta. Abbiamo individuato già il verduriere di fiducia, che ha letto la mano di Edo ma si è rifiutato di leggere la mia, dicendomi: “Ho scoperto di amarti”. Chapeau.

Domani iniziamo a scattare e intervistare. Spero di stare qualche giorno a Beirut e poi scendere verso il confine con Israele, o spingerci a est nella Bequaa. Non ho la forza di caricare ora qui le foto, ma un po’ a casaccio le ho buttate su Facebook, aperte a tutti, se vi va di vederle. Ah, ho un numero locale; chiamate ed sms allo 0096 – 1- 701-99425.

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