Archive for April 25th, 2010

se questo è cibo

Partiamo da un assunto: per alcune cose io sono una persona estremamente razionale, con i piedi ben piantati a terra e poco incline al romanticismo. Vivo in una grande città che mi sembra piccola, prendo più aerei che autobus, detesto la montagna senza la neve e qualsiasi posto collocato a più di 50 metri sul livello del mare;  il mio rapporto con la natura si limita sostanzialmente all’acqua, l’unico elemento che davvero mi riporta alla bellezza primordiale (la pianura mi aggrada, ma l’horror vacui mi assale dopo poche ore).
Per concludere lo spregevole quadro di me stessa, aggiungo che non ho praticamente alcun rapporto con animali né li amo particolarmente; nutro simpatia per i cani ma non abbastanza da prendermene in casa uno e fatico a credere alle storie di improvvisi colpi di fulmini tra uomini e bestie – anche se mia madre, che la pensava come me, si innamorò dall’oggi al domani di quelli che sarebbero diventati i suoi cani. Ma dubito fortemente che la storia possa ripetersi (un miracolato in famiglia è più che sufficiente, no?).
Chiarito questo, devo riconoscere che  il mio rapporto con gli animali – meglio, con la loro carne – vive una stagione difficile. Il colpo di grazia me l’ha inferto Eating animals (Se nulla importa), l’ultimo libro di Jonathan Safran Foer, giovanissimo maestro di lettere e fantasia, ma da tempo riflessioni e pensieri covavano sotto le ceneri. Il testo di Foer, vegeteriano non integralista, racconta con il consueto stile delicato ma estremamente immaginifico le sorti degli animali da allevamento. Non si dichiara contro il carnivorismo tout court, ma indaga i moderni sistemi di allevamento degli animali, le farm factory. Qui, per riassumere moltissimo – in rete si trovano tutte le informazioni possibili e immaginabili – volatili, maiali, mucche e tutti gli altri amici della fattoria sono allevati grazie a ritrovati scientifici e tecnologici con il solo obiettivo di crescere molto di più e molto più rapidamente di quanto la natura abbia previsto, così da rendere di più e costare di meno. Elencando alla rinfusa, Foer racconta di ormoni e antibiotici aggiunti ai loro mangimi, di sistemi di illuminazione a giorno che alterano la percezione temporale delle bestie (così le galline fanno uova costantemente), di migliaia di esemplari in poche decine di metri quadrati, di animali morti mescolati a quelli vivi, di bestie lasciate morire e marcire durante il trasporto, di selezione genetica delle specie finalizzata a ottenere unicamente animali più prolifici e resistenti a malanni e virus. Il tutto è estremamente documentato: il libro, frutto di anni di ricerche, ha un ricco appendice con tutti i trattati e le pubblicazioni scientifiche in materia, e Foer stesso si è intrufolato illegalmente in parecchi allevamenti per constatare di persona quello di cui andava narrando.
Accanto a questo aggiunge poi riflessioni sulla natura stessa dell’animale e della sua capacità di soffrire (anch’essa documentata da scienziati di ogni provenienza) e sull’opportunità dell’uomo di considerare alcuni animali come vicini e altri come totalmente estranei (nelle culture occidentali i cani sono più o meno sacri; in India lo stesso vale per le mucche), oltre a inquietanti considerazioni storico-scientifiche su come le moderne tecniche di allevamento siano corresponsabili per moltissime delle mortali forme virali recentemente presentatesi (l’H1N5, per dire) e di disagi quali asma, allergie e intolleranze sempre più comuni. Infine, Foer dà la parola ai detrattori della sua teoria, che spiegano in modo chiaro perché l’allevamento intensivo sia oggi il solo modo per rispondere all’esigenza proteica del mondo, a costi sostenibili per tutti.
Scelgo volontariamente di sorvolare sulla parte sentimentale della cosa – e non sempre senza fatica: alcune delle descrizioni della vita all’interno delle fattorie mi hanno fatto venire voglia di vomitare – e di concentrarmi unicamente su ciò che ha a che vedere con la salute e con l’etica. Perché devo ingollarmi chili di carne farcita di steroidi e antibiotici che indeboliscono il mio sistema immunitario con conseguenze che oggi non siamo nemmeno in grado di valutare? Perché buttare giù composti chimici, residui di animali inceneriti (quelli che muoiono e marciscono all’interno degli allevamenti vengono bruciati e riutilizzati nei mangimi degli altri) e una quantità di mix di farmaci probabilmente devastante? Perché farlo quando, oltretutto, la scienza, i medici e il santo Veronesi ripetono da anni che la carne rossa è potenzialmente cancerogena e andrebbe limitata al massimo? E ancora. Se è vero che gli animali soffrono e sono consapevoli della propria sorte, non è possibile anche che la loro stessa carne assorba il malessere cui la bestia è sottoposta nell’arco della breve vita? E poi: perché riempirmi di carne prodotta a centinaia di chilometri di distanza, alimentando un sistema perverso di trasporto merci, inquinamento ambientale, depauperazione del pianeta?
Una prima risposta a questa serie di domande potrebbe essere la scelta di consumare solo carne da allevamenti “tradizionali”, quelli per dire della bassa mantovana dove il maiale è sacro più o meno come le vacche nei pressi del Gange. Ma, a parte la difficoltà a reperirli in centro a Milano, o nei ristoranti in cui consumo il 97% dei miei pasti, Foer racconta anche di come spesso l’etichetta “bio” sia usata assolutamente a sproposito: per dirne una, la dicitura “allevate a terra”  sulla uova significa solo che la gallina ha avuto diritto magari a una gabbia di 30 per 50 centimetri che poggiava al suolo con una rete a maglie abbastanza larghe da consentire all’aria di circolare, al posto di un comodo loft a tenuta stagna da 20  per 20 centrimetri al decimo piano del condominio stile casermone popolare in cui sono allevate tutte le altre.
Una seconda risposta potrebbe essere smettere di mangiare carne e pesce, ma qui si apre un mondo. Tralasciando gli affettati, cui potrei rinunciare anche solo per la mia tendenza a ingrassare di cinque etti unicamente guardando una fetta di salame, eliminare frutti di mare  e pesce dalla dieta mi costerebbe uno sforzo immane: sono cresciuta in una famiglia in cui la domenica la mamma infilava le aragoste ancora vive nella pentola, e poi chiudeva la porta della cucina per non sentirle piangere (le aragoste piangono, lo sapete, no?). Oltretutto, come si rimpiazza la carne nell’alimentazione da bar quotidiana? Cosa si ordina in pausa pranzo? E la rustichella dell’autogrill alle cinque del mattino? Andando più a fondo, poi, c’è da chiedersi se smettere di mangiare carne non sovverta l’ordine naturale delle cose: non c’è dubbio sul fatto che ai primordi l’uomo fosse carnivoro, e che l’intero sistema sia stato studiato dalla natura o dal vecchio barbuto perché gli umani cacciassero le bestie, che a loro volta cacciavano altre bestie, che a loro volta cacciavano altre bestie e così via, garantendo con un equilibrio delicatissimo la sussistenza di tutti quanti.
Soprattutto, però, il problema che si pone è quello dell’onestà con se stessi. Sono una che vive attaccata all’iPhone, ho un modem wireless a cinque centimetri dal cuscino, guido una Ducati 600 il cui scarico non ha mai visto un filtro antiparticolato, compro vestiti firmati probabilmente prodotti in Cina, le mattine in cui la cervicale mi tormenta mando giù due Oki in un bicchiere d’acqua prima di fare colazione e due subito dopo, per non menzionare poi alcuni eccessi alcolici in cui mi capita di indugiare.
Come si concilia tutto questo con una posizione risoluta e convinta sul vegetarianesimo? Probabilmente non si concilia: o tutto o niente. Ma scegliere il tutto implica diventare un’altra persona, e optare per il niente significa tacere sussulti di coscienza sempre più insistenti.
E quindi?
Sono in attesa di una risposta, o di convincenti riflessioni altrui.
[Colonna sonora di tutti questi pensieri, e loro parte integrante: Mr Wendal, Arrested Develpment, 1992]

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