Archive for March 22nd, 2010

Usa, ’96-2010

Nel giugno 1996 avevo 16 anni e quattro mesi, un caschetto di capelli biondissimi e un paio di enormi valigie da portare con me dall’altra parte del mondo. Parecchie settimane prima, sull’onda di un entusiasmo mai intaccato dalla razionalità, avevo superato le selezioni per un programma di studio negli Stati Uniti: 14 mesi di permanenza e il quarto anno di liceo da terminare lì.

Mentre raccoglievo peluche, scrivevo biglietti agli amici e confezionavo cassette da ascoltare durante il Grande Volo (l’espressione era presa in prestito al più noto romanzo di Enrico Brizzi, uscito l’anno precedente, una sorta di manifesto generazionale per quelli della mia età), mi figuravo e raccontavo la cosa a tutti con le aspettative e la gioia dei pellegrini dei Mayflower; d’altra parte per me allora gli States erano Beverly Hills 90210, la possibilità di guidare la macchina, le palme di Rodeo Drive, il rock ‘n’roll e il rock duro e puro, le spiagge infinite della California, i pancake a colazione e la libertà di appoggiare lo sguardo in qualsiasi punto senza avere nulla a nascondere la linea dell’orizzonte.

Ricordo come fosse ieri il giorno della partenza: un aereo della TWA diretto ad Atlanta era saltato in aria soltanto il giorno prima e mia madre a Malpensa piangeva lacrime incontrollabili. Non era il pericolo che l’aereo esplodesse a preoccuparla, ovviamente, ma questo lo avrei capito soltanto molto dopo. Io, invece, non stavo nella pelle: avevo fretta di salutare i miei e imbarcarmi per quello che sentivo come il primo momento infinitamente grande della mia vita: e su questo, almeno, non sbagliavo.

New York alle sei del pomeriggio era avvolta in un’afa umida e un po’ puzzolente: i giorni dell’ecosensibilità dovevano ancora arrivare e fuori dal Jfk orde di pakistani sgasavano sulle loro Mercedes gialle anni ’80 forti della benzina a 70 centesimi al gallone. Mi guardavo intorno, frastornata dai rumori e dalla luce di un tramonto che si rifletteva sui grattacieli di Downtown, e mi sembrava di galleggiare nell’aria, con lo stordimento misto a compiacimento e quell’euforia che mi faceva sentire improvvisamente adulta e in possesso dell’intero mondo.

Il mio innamoramento per gli States durò l’intera estate, passata a scorazzare sui prati di Yale e nel Greenwich Village, in giro per Brooklyn sui rollerblade comprati per sentirmi subito una di loro (insieme alle magliette indossate inside-out, alla rovescia, come ogni teenager a stelle e strisce che si rispetti), tra le spiagge chilometriche di Long Island e nei fast food a rimpilzarmi di schifezze: allora Mc Donald’s aveva ancora un che di esotico per noi italiani di provincia.

Il mio primo impatto con le stranezze americane si consumò ad agosto, poco prima dell’ingresso nella nuova scuola: a una grigliata di amici addentando un hamburger strafarcito di grassi mi si ruppe un dente. L’intervento del dentista, della durata di un’ora al massimo, mi costò 600 dollari tondi tondi. Una certa sommetta, specie quindici anni fa. Faxai la parcella a casa, insieme alla richiesta di rimpinguarmi il conto in banca, e me ne dimenticai di lì a poco.

Ma l’idillio stava per incrinarsi: i primi di settembre un amico dall’Italia mi inviò un poster di Che Guevara, con dietro una lunga lettera. Lo attaccai commossa nella camera in cui alloggiavo, presso una famiglia di riccastri newyorkesi; dopo due settimane mi sbatterono fuori con l’accusa di fare politica in casa loro. Non sapevo, e con l’ingenuità dei sedici anni anche se lo avessi saputo non avrei saputo come interpretarlo, che lui era una prima linea del partito Repubblicano locale, e che Che Guevara per loro rappresentava un’ossessione comunista più o meno come i giudici oggi per Berlusconi. Fui trasferita, come la merce pericolosa, a qualche centinaia di chilometri di distanza, nel gelo siberiano di Washington D.C. Ad accogliermi una nuova famiglia, questa volta composta praticamente da due ragazzini: Mike aveva 35 anni, era un maggiore riservista dell’esercito e lavorava al NSA (National Security Agency), per cui ogni volta che parlavo al telefono con i miei lamentandomi di qualche cosa mia madre mi ammoniva preoccupata: “Non dire niente, che quello di sicuro ti capisce”; Mel aveva 29 anni, pesava duecento chili, etto più etto meno, aveva un passato nell’esercito e si occupava di spostar tir contenenti non so che lungo le highways americane. Brooke completava il quadretto: due anni e mai una parola spiccicata fino ad allora e in tutto l’anno della mia presenza.

Mel e Mike venivano dal Mississipi ed erano di colore; credo che all’epoca, nella Chiavari bene in cui ero cresciuta, non esistessero famiglie di immigrati. Il fatto di avere la pelle di un colore diverso era strano più per loro che per me: io la vivevo come un qualcosa di esotico, mi nutrivo di musica soul (l’unica che ascoltassero, con una sorta di rigetto per tutto ciò che non fosse colored), ascoltavo i loro racconti su posti lontani e poverissimi e sull’esercito in cui entrambi si erano arruolati per poter studiare; loro mi vedevano come la figlia bene dell’alta borghesia italiana, una che di certo non poteva capire cosa significasse nascere neri nel Mississipi degli anni 60.

Avevano ragione, ovviamente, anche se rischiavano spesso di sconfinare in un razzismo al contrario. Ma a vivere con loro, che comunque erano benestanti e giovani e divertenti, imparai più cose sull’America che andando a scuola, dove seguivo corsi ridicoli prendendo sempre il massimo dei voti (nota di colore: il mio primo tema, un commento a Medea, la tragedia, prese il voto più alto di tutta la scuola. Lo portarono in giro di classe in classe, trattandomi come il genio italiano; in realtà credo fosse in un inglese stentato e probabilmente sgrammatico: evidentemente però meno sgrammaticato di quello dei miei compagni). Viaggiammo in lungo e in largo: Georgia, Mississipi, Missouri, South Carolina, North Carolina, California, Illinois e via discorrendo. Spesso ci scontravamo – Mel era lunatica e scostante, probabilmente un po’ gelosa di una ragazzina nel fiore dell’adolescenza vicino al marito – ma discutevamo anche tanto di cose importanti, come la politica e la loro devozione all’esercito. Entrambi votavano per i Repubblicani (nel ’97 Clinton vinse il suo secondo mandato alla Casa Bianca), e il perché non mi fu mai chiaro, considerata la loro storia personale.

Ho parlato con loro per l’ultima volta dopo l’11 Settembre. Poi, per via del mio vagabondare e del passare degli anni, ci siamo persi di vista. Ma sono certa, assolutamente sicura al mille per cento, che entrambi abbiamo votato per Obama nel novembre 2008. E sono ancora più sicura che l’abbiano vissuta come una rivincita personale, come un sogno diventato realtà, esattamente come profetizzato dal Dottor King. Non potrebbe che essere così: io stessa, bianca con a cuore la storia, l’ho vissuta in quella maniera. Obama ha lo stesso carisma e la stessa struggente umanità di Martin Luther King, la capacità visionaria, la consapevolezza di ciò che la politica è e può fare: cambiare le sorti del mondo. Lo ha dimostrato oggi, con l’approvazione della riforma sanitaria, una scommessa vinta con la capacità di schiantare decenni di stereotipi e ingiustizie e lobbismo sulla pelle della gente.

Gli estemisti di destra definiscono Obama un socialista; pensando ai nostri socialisti mi sembra un insulto molto peggio di quello che vorrebbero, ma loro di certo non capirebbero perché.

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