Archive for March, 2010
Day after
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni on March 31, 2010

Lunedì sera alle 23.30 ho spento computer e televisione e mi sono infilata a letto con Mordechai Richler: le saghe israelo-palestinesi sono quanto di meglio per ricordare che c’è sempre qualcuno cui va peggio di noi.
Martedì mattina, ancora sotto le lenzuola, ho controllato le percentuali della disfatta – inspiegabile come la Bonino abbia preso meno voti di quella coatta da grande fratello; diciamo comunque che l’uscita a gamba tesa dell’Onorevole Bagnasco deve avere qualcosa a che fare con questo mistero – e poi mi sono infilata in redazione dove per almeno due ore ho evitato qualsiasi contatto con siti di informazione e quotidiani. Infine, mi sono convinta a volermi abbastanza male da prendere in mano il Corsera: in una giornata così, tanto vale fustigarsi anche con la linea editoriale di De Bortoli.
Ho rimuginato, rimuginato, rimuginato; evitato Facebook e similia; tenuto la bocca chiusa nella maggior parte dei dibattiti tra colleghi.
Infine, dopo tanto pensare, di fronte ai miei occhi si è materializzato chiarissimo il quadro della situazione. Eccomi, quindi.
Punto numero uno: non parlerò della destra. Nessuna citazione a Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, il di lui figlio, il mangiatore di asini Ignazio La Russa, il soldato della Padania Cota, quellachepotevafarelastardelGF Renata Polverini eccetera eccetera. Parlerò di noi; anzi, di loro: della sinistra (!).
Punto due: parlerò della sinistra, non del centro sinistra. Perché, parafrasando Moretti, le parole sono importanti e l’abitudine mentale a pensare in termini di cento sinistra è tra responsabili del danno: a noi interessa la Sinistra, non il centro, non la destra transfuga a sinistra, non i clericali vestiti ora da moderati, ora da verdi, ora da mascelloni. Io-sono-di-Sinistra, punto.
Terzo: parlerò della Sinistra come partito, come identità politica, come organismo sancito dalla costituzione nella sua natura di partito organizzato, e che per questo risponde a criteri, obblighi, doveri, statuti, regolamenti, e non a eccitazioni individuali e mal di pancia e voglia di gridare e incazzature di sorta e progetti mai acclarati e compagnia cantante.
Parliamo, dunque. Parliamo del Partito Democratico, infelice eredità del glorioso ancorché fallimentare Pci, mutazione transgenica avvenuta col filtro del moderatismo e del progressismo e del dialoghismo e del buonismo e, soprattutto, dell’incapacità di dire le cose come stanno per paura di essere troppo di sinistra (di cui l’allargamento al centro). Questa è la storia degli ultimi anni, la storia di una diluizione progressiva, che ha reso quelli che oggi si chiamano democratici sul modello americano un partito con poca anima (togliergliela del tutto sarebbe ingiusto e e li metterebbe a livello di Berlusconi e soci: un paragone che francamente non meritano) e scarsissima capacità di capire e ascoltare la gente, a parte le comparsate di Bersani fuori dai cancelli di Mirafiori, fuori tempo massimo visto che fra due anni nemmeno esisterà più. Un partito così teso nello sforzo di apparire moderato che ha smesso proprio di apparire; così progressista e largo nei propri obiettivi da essere incapace di inquadrarne uno concreto (a parte quello di far fuori Berlusconi, cosa che peraltro a queste condizioni non gli riuscirà mai); così rispettoso della Res Publica e delle sue istituzioni da non riuscire a distinguere quando le istituzioni mancano di rispetto a noi. Un partito addormentato, che reagisce poco e reagisce tardi. Un partito la cui unica mossa chiara di recente è stata provare a far fuori Nichi Vendola: e per fortuna che Vendola è più sveglio di loro e ne ha fatti secchi lui un paio.
Poi guardiamo i risultati elettorali e vediamo chi, nella galassia dell’opposizione, è venuto fuori bene da questa tornata. Il buon Vendola, appunto, che mi fregio di additare come speranza della sinistra da anni ormai. Antonio Di Pietro e i suoi. Grillo e i grillini.
La lezione è così chiara che non c’è quasi bisogno di tirare le fila. Ma facciamolo comunque.
1) Gli elettori vogliono messaggi chiari, semplici e che sentano propri e importanti (peraltro il modello della Lega). Vendola ha vinto il secondo mandato in Puglia, andando contro l’apparato e nonostante inchieste e scandali che hanno travolto molti intorno a lui, con la capacità di dire cose elementari ed enormemente di sinistra (a me sembrano di buon senso, ma generalmente vengono ricondotte a sinistra). Per esempio: l’acqua è un bene di tutti e non si paga. Il nucleare è pericoloso e finché non sappiamo come smaltire le scorie non costruiamo centrali a casa nostra. Patti con delinquenti non ne faccio.
Sembrano cose strane? No, eppure avete sentito Bersani dirlo di recente? (O anche non di recente). Quanto ci vuole a dire che privatizzare l’acqua è inammissibile? Ci vuole il coraggio di ricordarsi chi siamo e cosa crediamo e qual è lo spirito della sinistra: evidentemente la nomenklatura del PD non ha il coraggio di affermarlo.
2) Messaggi chiari (magari non nella forma lessicale, ma tant’è) sono quelli che manda Di Pietro, un altro il cui partito è in crescita netta. E quelli che grida Grillo ansimando durante i suoi spettacoli e nelle piazze. Sono tutti da condividere? No, io molti di quelli di Grillo non li condivido affatto. Mancano di sostanza e chiarezza, sono spesso poco più che mere enunciazioni di sogni. Eppure evidentemente la gente ha bisogno anche di sogni con cui vivere: un mondo più verde, energie rinnovabili, città cablate, benzina che costa il giusto. Quant’è che il PD (o i Ds prima, e prima il Pds) non regala un sogno?
A me anni.
3) Cos’hanno in comune i Grillini, l’IDV, la Lega e Sinistra e Libertà? Un leader forte, chiaro e riconoscibile. C’è un altro modo per spiegare come Vendola, giovane (specie al suo primo mandato), omosessuale e di fede postcomunista abbia potuto vincere in Meridione per due mandati di fila?
Quindi, lezioncina. La Sinistra, per tornare a essere tale, ha bisogno di: trovare un leader che lo sia davvero (continuo a suggerire il nome di Nichi); trovare il coraggio di fare un programma che si basi su valori chiari e condivisi e condivisibili; smettere di provare a impallinare l’avversario sentendosi a lui superiore, ma iniziando a impallinarlo con progetti, proposte e discorsi che gli rispondano in modo chiaro e netto; ritrovare l’orgoglio di essere sinistra.
A quel punto, se mai arriverà, avrà di nuovo il mio voto.
Usa, ’96-2010
Posted by gea in personaggi, politica e dintorni, viaggi on March 22, 2010

Nel giugno 1996 avevo 16 anni e quattro mesi, un caschetto di capelli biondissimi e un paio di enormi valigie da portare con me dall’altra parte del mondo. Parecchie settimane prima, sull’onda di un entusiasmo mai intaccato dalla razionalità, avevo superato le selezioni per un programma di studio negli Stati Uniti: 14 mesi di permanenza e il quarto anno di liceo da terminare lì.
Mentre raccoglievo peluche, scrivevo biglietti agli amici e confezionavo cassette da ascoltare durante il Grande Volo (l’espressione era presa in prestito al più noto romanzo di Enrico Brizzi, uscito l’anno precedente, una sorta di manifesto generazionale per quelli della mia età), mi figuravo e raccontavo la cosa a tutti con le aspettative e la gioia dei pellegrini dei Mayflower; d’altra parte per me allora gli States erano Beverly Hills 90210, la possibilità di guidare la macchina, le palme di Rodeo Drive, il rock ‘n’roll e il rock duro e puro, le spiagge infinite della California, i pancake a colazione e la libertà di appoggiare lo sguardo in qualsiasi punto senza avere nulla a nascondere la linea dell’orizzonte.
Ricordo come fosse ieri il giorno della partenza: un aereo della TWA diretto ad Atlanta era saltato in aria soltanto il giorno prima e mia madre a Malpensa piangeva lacrime incontrollabili. Non era il pericolo che l’aereo esplodesse a preoccuparla, ovviamente, ma questo lo avrei capito soltanto molto dopo. Io, invece, non stavo nella pelle: avevo fretta di salutare i miei e imbarcarmi per quello che sentivo come il primo momento infinitamente grande della mia vita: e su questo, almeno, non sbagliavo.
New York alle sei del pomeriggio era avvolta in un’afa umida e un po’ puzzolente: i giorni dell’ecosensibilità dovevano ancora arrivare e fuori dal Jfk orde di pakistani sgasavano sulle loro Mercedes gialle anni ’80 forti della benzina a 70 centesimi al gallone. Mi guardavo intorno, frastornata dai rumori e dalla luce di un tramonto che si rifletteva sui grattacieli di Downtown, e mi sembrava di galleggiare nell’aria, con lo stordimento misto a compiacimento e quell’euforia che mi faceva sentire improvvisamente adulta e in possesso dell’intero mondo.
Il mio innamoramento per gli States durò l’intera estate, passata a scorazzare sui prati di Yale e nel Greenwich Village, in giro per Brooklyn sui rollerblade comprati per sentirmi subito una di loro (insieme alle magliette indossate inside-out, alla rovescia, come ogni teenager a stelle e strisce che si rispetti), tra le spiagge chilometriche di Long Island e nei fast food a rimpilzarmi di schifezze: allora Mc Donald’s aveva ancora un che di esotico per noi italiani di provincia.
Il mio primo impatto con le stranezze americane si consumò ad agosto, poco prima dell’ingresso nella nuova scuola: a una grigliata di amici addentando un hamburger strafarcito di grassi mi si ruppe un dente. L’intervento del dentista, della durata di un’ora al massimo, mi costò 600 dollari tondi tondi. Una certa sommetta, specie quindici anni fa. Faxai la parcella a casa, insieme alla richiesta di rimpinguarmi il conto in banca, e me ne dimenticai di lì a poco.
Ma l’idillio stava per incrinarsi: i primi di settembre un amico dall’Italia mi inviò un poster di Che Guevara, con dietro una lunga lettera. Lo attaccai commossa nella camera in cui alloggiavo, presso una famiglia di riccastri newyorkesi; dopo due settimane mi sbatterono fuori con l’accusa di fare politica in casa loro. Non sapevo, e con l’ingenuità dei sedici anni anche se lo avessi saputo non avrei saputo come interpretarlo, che lui era una prima linea del partito Repubblicano locale, e che Che Guevara per loro rappresentava un’ossessione comunista più o meno come i giudici oggi per Berlusconi. Fui trasferita, come la merce pericolosa, a qualche centinaia di chilometri di distanza, nel gelo siberiano di Washington D.C. Ad accogliermi una nuova famiglia, questa volta composta praticamente da due ragazzini: Mike aveva 35 anni, era un maggiore riservista dell’esercito e lavorava al NSA (National Security Agency), per cui ogni volta che parlavo al telefono con i miei lamentandomi di qualche cosa mia madre mi ammoniva preoccupata: “Non dire niente, che quello di sicuro ti capisce”; Mel aveva 29 anni, pesava duecento chili, etto più etto meno, aveva un passato nell’esercito e si occupava di spostar tir contenenti non so che lungo le highways americane. Brooke completava il quadretto: due anni e mai una parola spiccicata fino ad allora e in tutto l’anno della mia presenza.
Mel e Mike venivano dal Mississipi ed erano di colore; credo che all’epoca, nella Chiavari bene in cui ero cresciuta, non esistessero famiglie di immigrati. Il fatto di avere la pelle di un colore diverso era strano più per loro che per me: io la vivevo come un qualcosa di esotico, mi nutrivo di musica soul (l’unica che ascoltassero, con una sorta di rigetto per tutto ciò che non fosse colored), ascoltavo i loro racconti su posti lontani e poverissimi e sull’esercito in cui entrambi si erano arruolati per poter studiare; loro mi vedevano come la figlia bene dell’alta borghesia italiana, una che di certo non poteva capire cosa significasse nascere neri nel Mississipi degli anni 60.
Avevano ragione, ovviamente, anche se rischiavano spesso di sconfinare in un razzismo al contrario. Ma a vivere con loro, che comunque erano benestanti e giovani e divertenti, imparai più cose sull’America che andando a scuola, dove seguivo corsi ridicoli prendendo sempre il massimo dei voti (nota di colore: il mio primo tema, un commento a Medea, la tragedia, prese il voto più alto di tutta la scuola. Lo portarono in giro di classe in classe, trattandomi come il genio italiano; in realtà credo fosse in un inglese stentato e probabilmente sgrammatico: evidentemente però meno sgrammaticato di quello dei miei compagni). Viaggiammo in lungo e in largo: Georgia, Mississipi, Missouri, South Carolina, North Carolina, California, Illinois e via discorrendo. Spesso ci scontravamo – Mel era lunatica e scostante, probabilmente un po’ gelosa di una ragazzina nel fiore dell’adolescenza vicino al marito – ma discutevamo anche tanto di cose importanti, come la politica e la loro devozione all’esercito. Entrambi votavano per i Repubblicani (nel ’97 Clinton vinse il suo secondo mandato alla Casa Bianca), e il perché non mi fu mai chiaro, considerata la loro storia personale.
Ho parlato con loro per l’ultima volta dopo l’11 Settembre. Poi, per via del mio vagabondare e del passare degli anni, ci siamo persi di vista. Ma sono certa, assolutamente sicura al mille per cento, che entrambi abbiamo votato per Obama nel novembre 2008. E sono ancora più sicura che l’abbiano vissuta come una rivincita personale, come un sogno diventato realtà, esattamente come profetizzato dal Dottor King. Non potrebbe che essere così: io stessa, bianca con a cuore la storia, l’ho vissuta in quella maniera. Obama ha lo stesso carisma e la stessa struggente umanità di Martin Luther King, la capacità visionaria, la consapevolezza di ciò che la politica è e può fare: cambiare le sorti del mondo. Lo ha dimostrato oggi, con l’approvazione della riforma sanitaria, una scommessa vinta con la capacità di schiantare decenni di stereotipi e ingiustizie e lobbismo sulla pelle della gente.
Gli estemisti di destra definiscono Obama un socialista; pensando ai nostri socialisti mi sembra un insulto molto peggio di quello che vorrebbero, ma loro di certo non capirebbero perché.
Deep blue skies

Sono andata a vedere la mostra di Steve Mc Curry, in extremis: doveva chiudere il 31 gennaio e l’hanno prolungata due volte, vista l’affluenza sensazionale.
Basta un’occhiata d’insieme alla sala per capire perché: i colori fanno festa, mentre la profondità di sguardi ti inchioda alle pareti mentre passeggi tra una foto e l’altra. E non sei tu a guardare i soggetti ritratti: sono loro a guardare te. Non so quanto Mc Curry post produca le immagini – alcuni si lamentano, pare che lavori troppo sul colore – ma se è anche così poco importa. Il risultato complessivo è quello di un viaggio lunghissimo, che vorresti durasse di più.
C’era qualche scatto asiatico simile ai miei: la madre cambogiana col bambino, il piccolo per terra con gli occhioni sgranati, i bambini davanti a Angkor che si tuffano nelle pozze. Mi è venuto da sorridere: è bello sapere cosa ha provato il fotografo in quel momento lì, cosa c’era intorno, come profumava l’aria, quanto doveva aver camminato per arrivarci. Ti senti un po’ a casa tua guardando una foto fatta dall’altra parte del mondo.
E poi, come sempre, mi si è riaccesa la chimera del viaggio per il viaggio: farne uno stile di vita, al posto che uno strumento di lavoro. E’ un tarlo che mi lavora da mesi. Non so conciliarlo con tutto il resto ma non riesco nemmeno a mandarlo via, e questo qualcosa deve significare.
I have a dream
Posted by gea in politica e dintorni on March 18, 2010

Non è tempo di decisioni facili. Per nessuno, a giudicare da come starnazzano in Tv politici di estrazioni composite (ma con una netta preponderanza liberticida), e nemmeno per me. Ho detto di no a un lavoro che mi interessava, in una rivista nazionale. Ma le condizioni non erano quelle giuste.
Rifiutare un lavoro mi riesce molto difficile; non che sia un epigono di Max Weber, ma appassionata di quello che faccio sì, e parecchio. Prendere decisioni così è come mettere tutto su una bilancia la cui lancetta è governata dal caso; può essere che la scelta sia stata quella giusta, magari invece le circostanze dimostreranno il contrario.
A fare da contraltare, però, c’è sempre il peso dei sogni, e l’insofferenza verso chiunque soffi sul loro fuoco, forte di carriere costruite in anni in cui tutto era semplice. Giorno dopo giorno sono sempre più intollerante verso i cinici cinquanta-sessantenni, quelli che hanno preso tutto e ora alzano le spalle e ti consigliano di lasciar perdere. Hanno quell’atteggiamento tra il razionale e il rassegnato di chi evidentemente non ha mai avuto bisogno di combattere, o di credere che si possa farlo. Ti trattano come una sorta di Don Chisciotte, con un misto di pietismo e comprensione, per l’importanza delle tue speranze.
Il mio lavoro ovviamente non è la lotta al colonialismo o all’apartheid, ma avrei voluto vedere dove saremmo arrivati se Ghandi, Mandela o Martin Luther King avessero avuto quella faccia lì. Eppure, lo hanno fatto anche per loro: per quelli che oggi, democristianamente, a destra o a sinistrissima, alzano il sopracciglio in segno di resa.
Dai
Posted by gea in gea and the city on March 14, 2010

È vero, martedì nevicava. Ma oggi a Milano c’era un sole bellissimo e un tepore che abbiamo sognato per mesi. Nelle vetrine sono tornati a far capolino i vestiti leggeri e in giro si vedono sempre più moto.
Dai, dai, dai che ce la fai ad arrivare, primavera.
il tuo sorriso giovane

Questo film mi ha fatto piangere un fiume di lacrime. E ridere, e sorridere, e ricordare.
C’è la leggerezza di questa donna che è un personaggio struggentemente bello e vero, e il dolore che la sua vitalità causa ai figli. Ci sono dinamiche famigliari complesse eppure simili a quelle di tante famiglie, così difficili da snodare ma così vere nei loro percorsi intrecciati e nell’affetto che tracima nonostante tutto.
C’è una donna bellissima, un’epoca storica, il dolore per una perdita, la surrealtà di certe situazioni, l’ironia come arma, il legame alla terra, il mare come rifugio, una storia in alcuni pezzi così mia da far male. E c’è questa canzone, di cui mi sono innamorata.
(Ho preso la chitarra e suono per te/ il tempo di imparare non l’ho e non so suonare/ma suono per te).
Vetri

Guardo il mondo dal finestrino. Non nel senso che sto alla finestra; nel senso che salgo su aerei, treni, taxi, pulmini e pigio il naso contro al vetro, per vedere meglio cosa c’è fuori.
Milano-Gressoney, su una Punto. Poca neve e tanto freddo, in queste valli che sanno reinventarsi come i migliori trasformisti: d’estate vivono sulle correnti del Sesia, che stuoli di giovani in cerca di emozioni solcano su kayak o gommoni; d’inverno accolgono altri pazzi – questi veri – che si buttano giù dalle cime del Monte Rosa senza protezioni, lavorando di lamine e fantasia.
Rientro a Milano dopo la mia prima giornata di snowboard: non ci sono maestri disponibili e opto per il fai-da-te, confidando sui soliti similcampioni desiderosi di insegnarti, tacchinarti, dare sfoggio di sé. Non sbaglio, infatti. A sera affondo nel sedile della Mini di amici col coccige dolorante e la schiena che urla, scoprendo che esistono anche gli autogrill politically correct, quelli che non vendono riviste porno dopo le 22: forse non gli va che i camionisti gettino fazzoletti farciti di liquido seminale nei loro parcheggi.
Milano-Napoli, l’indomani. A Linate il mio aereo ha un’ora e mezza di ritardo causa nebbia; la hostess capisce e mi fa imbarcare su quello precedente, con il gate giù quasi chiuso. In prima classe ci sono solo coppie annoiate che non si rivolgono la parola e affondano nei rispettivi quotidiani; cambio posto per pigiare il naso contro il finestrino e scopro che se si potessero bucare le nuvole con uno spillone ne uscirebbe il sole. A dieci minuti di altitudine il grigio cenere che avvolge la città lascia spazio a un sole morbido e caldo, che mi rallenta i movimenti e sembra farmi galleggiare sopra i pensieri e gli sguardi. Le ali tagliano nuvole soffici; penso che potrei stare in volo dieci ore e stare bene. Ma il volo è invece corto, a Napoli si atterra tra le case, la traiettoria sfiora la scalcinata autostrada e a terra la cantilena locale e il profumo di caffè accolgono in un abbraccio luciferino.
Napoli-Ercolano, in taxi. Siamo in Italia, in Libia o ancora in Vietnam? Mi sento come se avessero messo un filtro seppia sul finestrino, con le case che virano all’ocra, i palazzi scalcinati e i segnali stradali ammonticchiati gli uni sugli altri, confusi e superflui. Il taxista vuole sapere cosa ci faccio a Napoli, “ma il tuo fidanzato ti lascia muoverti da sola?”, vaglielo a spiegare che tocca uno dei nodi cruciali di un’intera esistenza, non proverò però a intavolare con lui una discussione sull’indipendenza e la necessità di spazi vitali e di essere se stessi trascinati dalla corrente, che se gli altri vogliono fermarmi stanno cercando di soffocarmi, e quanto ci vuole a capirlo, ci ho messo 30 anni io, non basta certo il tragitto Napoli-Ercolano, ecco. “Sono qui per lavoro”, “Allora ti compro un regalo per te”. Al casello della tangenziale un tizio vende cornetti portafortuna, l’oggetto più napoletano che si possa immaginare, il taxista me lo dona in mezzo a un mare di cemento, con il Vesuvio imbiancato alle spalle e il mare quello vero che brilla in lontananza, la sagoma di Capri a profumare di primavera. Mi schernisco imbarazzata, ma in fin dei conti sono contenta, finché non lo perdo lo guarderò con tenerezza.
Ercolano-Napoli-Verona. All’aeroporto bevo caffè su caffè, non importa se poi non dormirò, è uno di quelle godurie a poco costo che riempiono l’anima (e non ingrossano le chiappe, a differenza delle sfogliatelle di Gambrinus). All’imbarco rifletto su come siano perfettamente riconoscibili gli uomini di mezz’età della Napoli bene, sembrano fatti con lo stampino: chiome ancora folte e curate, tra il grigio e il bianco, volti abbronzati, lineamenti morbidi anche quando i volti sono squadrati. Hanno buone maniere che confinano con un manierismo un po’ posticcio, e occhi brillanti che tradiscono il desiderio delle carne senza bisogno delle boutade brianzole così in voga dalle nostre parti.
Verona, stazione ferroviaria. Il vetro della biglietteria. “Mi dà un biglietto per Bolzano?”. “Non posso signorina, non riesco a prenotarlo, prenda quello dopo”. “Non posso, ho un appuntamento, come devo fare?”. “Salga sul treno e prenda la multa”.
L’intercity è troppo sporco per attaccare il naso al finestrino, ma il paesaggio che scorre si intuisce anche se puntinato del marrone di vetri non lavati da mesi. Lo trovo desolante: la montagna senza neve mi sembra brulla e triste, senza ragione d’essere. Il cemento di casette regolari e razionali e mortificanti si insinua tra le valli, lasciando intuire lo scorrere ordinato di vite regolate col misurino.
Milano-Barcellona, il giorno del mio trentesimo compleanno. Per la famosa teoria del battito delle ali di una farfalla a Pechino che causa un uragano in Africa – più o meno, diciamo – uno sciopero dei controllori di volo francesi mi costringe a sette ore di attesa sugli striminziti sedili di plastica di Linate, l’aereporto meno accogliente d’Italia, fatta eccezione per Malpensa, ovviamente. Pochissimi negozi, un paio di mediocri ristobar, bagni che differiscono poco da quelli dello stadio di San Siro e soprattutto un linoleum consunto che ogni volta mi ricorda l’aeroporto di Bogotà dove ho passato una notte qualche anno or sono. Nonostante sia affollato da business man che non cessano un attimo di parlare al telefono – è quasi sera quando penso di chiedere a uno che telefono abbia, che io una batteria così me la sogno, infatti il mio iPhone è già attaccato in carica tra un bidone dell’immondizia e l’ingresso della toilette – Linate è una delle cose meno business del mondo, a partire dalla triste considerazione che pur distando cinque chilometri in linea d’aria dal centro cittadino praticamente l’unico metodo per raggiungerlo è il taxi.
Seduti affianco a me due colleghi, che non conoscevo fino a poche ore prima, e con i quali si chiacchiera fitto fitto, in quelle classiche situazioni da film in cui due sconosciuti per l’irriverenza del caso finiscono per diventare protagonisti di una giornata che probabilmente mai dimenticherai – quella in cui compi trent’anni, per l’appunto.
Quando finalmente il volo parte è sera, e il mio posto vicino al finestrino non serve a molto, se non a evitare l’invadenza di quelli che si sentono in obbligo di scambiare due chiacchiere a tutti i costi. Accendo l’iPod e appoggio la testa contro il vetro: black out.
L’albergo che mi ospita a Barcellona è un finestrino integrale, uno di quei posti tremendamente di design, firmato da un architetto con cachet milionario, che si affaccia direttamente sulla baia e al posto di muri di cemento ha immense vetrate. Sfarzoso tanto da farti sentire inadeguato, specie dopo una giornata trascorsa in aeroporto, restituisce tutto con gli interessi di prima mattina, quando ti sveglia la luce del sole – che a Barcellona ha sempre una certa intensità – e mentre ti stropicci gli occhi ti rendi conto di essere sospeso sopra un lembo infinito di sabbia e mare. Mi sono chiesta se mai nella vita potrò permettermi un lusso così pagandolo di mia tasca (la risposta è no al 90%, dando un’occhiata al listino), e quanto faccia bene al corpo, oltre che all’umore, un risveglio di questo tipo. Credo moltissimo.
Dei colori, della gioia, dell’allegria della città che secondo me non ha un solo problema significativo ho già scritto molto; il piacere di fare una corsetta sulla Barceloneta all’alba o al tramonto è invece una cosa da provare in prima persona: fa sentire un po’ hollywoodiani, ma anche tremendamente umani e semplici. Niente è più vero del mare.
Barcellona – Milano – Bergamo. Dall’aeroporto di Barcellona a quello di Orio al Serio ci sono in mezzo un paio di ere geologiche di sviluppo, ma anche la democratizzazione dello spazio aereo che mi ha permesso di portare a Londra con poco meno di 300 euro una decina di amici.
La mia tesserina Blue Sky frequent flyer non può nulla sui voli Ryan Air: la corsa ai posti a sedere è come quella del primo giorno di scuola negli ultimi tre anni del liceo, in cui alle 7.30 sei già a fare la posta davanti ai cancelli per conquistare un ultimo banco che potrebbe salvarti l’intera annata. I low-cost sono anche un’ottima finestra su spaccati umani e sociali, occasione irripetibile di entrare in contatto con persone che nel tran tran quotidiano non incontreresti mai. La categoria più frequente, e imbarazzante, è quella dei vacanzieri che si esprimono in dialetto e normalmente si lasciano andare alle considerazioni più colorite su hostess e affini, parlano a voce sempre troppo alta, hanno bagagli per cui dovrebbero pagare sovrapprezzi che non vogliono pagare e si danno di gomito ogni volta che una si alza per andare alla toilette. C’è del classismo in questa descrizione, lo so. Però provate a prendere un Ryan Air per Londra o Praga e poi ditemi se non è vero.
Londra Stansted. A Stansted il servizio di navette che porta in città è gestito nientepopodimeno che da ragazzi romani. Un esercito di romani. Che, per di più, l’inglese lo mastica ancora in modo approssimativo. E dire che con gli autobus di soldini devono averne fatti, forse un corso intensivo di lingua farebbe fare un salto di qualità al business. A pigiare il naso sul finestrino si vede poco – è notte – ma appena il bus approccia Liverpool station, cuore della City, nonostante siano le 3 di mattina di un giorno piovoso (strano, eh), fiumi di persone spuntano da tutte le parti.
Ragazzi bianchi, meticci, scuri, asiatici; ragazze bionde e brune, senza calze, con i sandali che noi indossiamo a luglio, con magliette strette nonostante ventri non proprio piatti, che ondeggiano pericolosamente sotto l’effetto di litri di birra.
Londra, dove negli ultimi mesi ho avuto la fortuna di andare spessissimo, è il vero melting pot, in questo momento. Non New York, non Berlino, non Pechino: Londra, che dagli anni 80 a oggi è cambiata più di qualsiasi altra città al mondo. L’aria che tira oggi sulle sponde del Tamigi è quella che gli Scorpions vent’anni fa avrebbero cantato in Wind of Change; è un posto che sta letteralmente fermentando, in cui ogni giorni nascono teatri, negozi, quartieri, mercati. Ho amici, parecchi, che sono andati a vivere lì nell’ultimo anno: seduti a pranzo in una bio-grocery, un supermercatino sensibile al biologico con tavoloni di legno chiaro, ritmi brasiliani di sottofondo e una connessione wi-fi aperta a tutti, mi hanno raccontato meraviglie di un posto che fino a una decina d’anni fa era uno dei meno accoglienti d’Europa. Gente che si sa rinnovare.
Tutti hanno provato a convincermi a strasferirmi lì, e non è che non lo farei al volo, se il Guardian mi chiamasse. Non è detto che non ci vada, con o senza telefonata.
Articolo 1
Posted by gea in politica e dintorni on March 2, 2010

“La sveglia delle 7 e 15 è una brutta abitudine? Gioca a Turisti per Sempre e vivi facile. Con Turisti per sempre vinci subito 6mila euro al mese per 20 anni. E la sveglia sarà solo un ricordo”.
Questo è il messaggio promosso con uno spot radiofonico dal nostro Stato. Quando si dice una repubblica fondata sul lavoro.
(ipocrisia suprema: al termine lo speaker aggiunge “Gioca con moderazione”. Dash lava più coscienze).
[da riascoltare: Indietro Tutta, quando la realtà super l’immaginazione]