Archive for January, 2010

Aggiornamenti

1. Nelle ultime settimane sto andando in giro a intervistare alcuni dei valorosi che rappresenteranno l’Italia all’Olimpiade di Vancouver, il mese prossimo. Trattandosi di sport invernali, si parla per lo più di gente abituata a metri di neve e temperature simil-artiche, residente in paesini arroccati su picchi dolomitici, con strade non mappate dai navigatori satellitari e tornanti che ti strizzano lo stomaco. La scena è più o meno questa: mi sveglio alle cinque e mezza, mi infilo uno strato sopra l’altro tutto l’abbigliamento tecnico che possiedo, butto in borsa un TomTom ricevuto in prestito dal fratello maggiore risalente al 2005 e mai più aggiornato, prego silenziosamente che la macchina non mi molli a metà. Mentre mi sparo 400 chilometri di cui i primi 200 ancora al buio, rimpiango i servizi patinati in centro a Milano e mi consolo con l’idea di scoprire storie spesso più affascinanti di quelle degli stranoti da prime pagine con casa in quartiere San Siro. Ancora di più, con quella dello strudel caldo e cioccolata che servono generosamente nelle baite della zona.

In tarda mattinata il quadro muta così: verdiccia per la nausea, con gli occhi a mezz’asta, con la schiena e le ascelle umidicce per il riscaldamento impostato a 28 gradi, sono piantata nel mezzo di una strada ghiacciata che sale ininterrotta da mezz’ora, ho l’esatta percezione che sono nel posto sbagliato e in un ritardo tremendo e grido contro il dannato navigatore che ripete da dieci minuti come un disco rotto “Al-la roton-da te-ne-te la des-tra e prende-te la pri-ma usci-ta”.

Il piano B prevede raggiungere un centro abitato e chiedere informazioni. Ed è lì che, come un’epifania, divento improvvisamente consapevole della ridicolaggine di me stessa, Bridget Jones de noantri, sfortunatamente non dilaniata dal dilemma tra Hugh Grant e quell’altro giovinotto ben piazzato con il maglione con le renne. Davanti a una scuola elementare accosto la mia macchinina e scendo con la sciarpa che striscia a terra, la borsa firmata tremendamente fuori luogo, un cappello rubato a mio nipotino calcato sulla testa, gli occhiali da sole appannati per lo sbalzo termico. Mi avvicino a un indigeno e chiedo “Scusi, per Melette?” (anzi: per mèlèttè?). Questo mi guarda torvo e risponde in una lingua creola tra l’italiano, il tetesco e il dialetto. Ci vogliono almeno 3 minuti prima che lui finisca di spiegarmi, io risalga in macchina con una crisi di risarella che preme nella pancia, estragga l’iPhone e chiami il fotografo: “Scusa, mi ripeti dov’è il posto? Perché l’ho chiesto a un tizio ma mi veniva così da ridere che non riuscivo ad ascoltare”.

2. Parlando di cose serie. Dopo la figura di legno di Bologna – il sindaco Delbono costretto a dimettersi per presunte truffe (seppur di poco conto) ai danni dei contribuenti – e della Puglia – Vendola che seppellisce di voti il suo sfidante alle primarie – come fa un elettore del PD ad ascoltarli ancora? Con che faccia D’Alema e Bersani vanno in televisione? Non so, ma io nei loro panni penserei a un piano B.

3. Ancora più serie. Guido Bertolaso critica gli americani per la gestione di Haiti, facendo scoppiare un caso internazionale (e sfiorando il rischio di doversi dimettere). Ovviamente lo fa a pieno titolo: dall’Italia, la regione Lombardia e la città di Brescia hanno già mandato una dozzina di vigili urbani e una cinquantina di coperte. Questione di superiorità. A prescindere, direbbe Totò.

4. Infine. Ho iniziato il corso di francese cui accennavo a dicembre. Mettersi a litigare con le coniugazioni dei verbi a trent’anni fa sentire un po’ ridicoli. Ma dà anche grossa soddisfazione.

5. Ah, dimenticavo. Steve Jobs ha presentato la sua ultima meraviglia, l’iPad (il mondo trema nell’attesa del giorno in cui avrà finito le parole che iniziano per P e per M). Detto da una Apple-addicted, sembra un oggetto un po’ deludente. Con ogni probabilità, fra sei mesi ne avrò uno.

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On the asian road_ part 3

[Leggi la prima e la seconda parte]

Per arrivare dal Vietnam a Seam Reap, Cambogia, ci sono due modi: fare otto ore di autobus fino a Phnom Penh e di lì altrettante in barca lungo il fiume Sanlop – lo ha fatto mio padre, me ne ha detto meraviglie – oppure salire su un bielica alle sei della mattina e pregare il buon dio. Noi, a corto di tempo, abbiamo pregato.

La panoramica della microscopica sala d’arrivo dell’aeroporto cambogiano esemplifica con rara chiarezza le statistiche diffuse annualmente dagli organismi internazionali, secondo cui la Cambogia si piazza al 153esimo posto su 158 dei Paesi più corrotti al mondo, con una tra le forbici più ampie tra poveri(ssimi) e governanti e un livello di miseria pari a quello del continente africano. Al controllo di immigration, la dogana, si pagano 20 dollari d’ingresso per il visto, più una fototessera; sprovvisti della fototessera, ce la caviamo con 21 dollari, l’uno in più (una certa sommetta per il luogo) incassato rapidamente da uno dei funzionari. Il funzionario in questione è solo uno dei 10 schierati in semicerchio: il nostro uomo-del-fare Brunetta griderebbe vendetta nel vederli passarsi i passaporti di mano in mano, ciascuno esprimendo la propria opinione sull’ammissibilità dello spaesato turista nel Paese. Al decimo tocca il compito di mettere il timbro definitivo, chiamare le persone una a una e riconsegnare il documento vistato. Contro ogni aspettativa – quel “giornalista” indicato sul mio come professione ci fa trattenere il fiato – ci lasciano entrare senza questioni, e senza bisogno di ungere oltre la macchina dei controlli.

Le prime a darci il benvenuto appena guadagnata l’uscita sono le zanzare, una miriade incattivita, pronta a seminare il panico e la malaria; meditiamo di infilarci felpe e scarpe da ginnastica per coprire almeno un po’ del corpo, ma la prospettiva del caldo umido paludoso è quasi peggio di quella della malaria. Il taxi che ci porta in centro è un tuc-tuc, un rickshaw trainato da un motorino 125; mentre sobbalza sulla strada semiasfaltata ci guardiamo intorno increduli: nei pressi solo campi e risaie, nessun’altra strada oltre quella che percorriamo, nessun cartello, niente macchine. Gruppetti di ragazzini con la divisa della scuola si spostano a tre a tre su bici che farebbero impazzire gli amanti del modernariato; ci guardano incuriositi, fanno ciao con la mano. Ricambiamo i saluti un po’ inebititi, storditi dal sonno e dalla polvere che si solleva copiosa al nostro passaggio.

Ci vogliono venticinque minuti abbondanti per arrivare in fondo alla strada sterrata dove si trova l’albergo, o almeno quello che a Saigon ci hanno descritto come tale. Le camere senza finestra sanno di umido e muffa, le lenzuola presentano macchie inequivocabili, il bagno ha lo scarico rotto e una doccetta a muro sopra il water, senza acqua calda; accarezzo l’idea di non lavarmi fino al ritorno in Italia, ma sette giorni sono troppi anche per gli standard igienici al ribasso cui il viaggio on the road ci ha abituato. In compenso, i due fratelli alla reception sono solerti nell’aiutarci a trovare una guida per visitare i templi di Angkor Wat, ottava meraviglia del mondo e catalizzatori del 98% dello scarso turismo cambogiano. Il prezzo, però, cambia più o meno ogni cinque minuti e ci vogliono un paio d’ore di estenuante trattativa per convincerli a scriverlo nero su bianco (proveranno comunque a rialzarlo un altro paio di volte nei giorni successivi); la prima guida che si presenta, in ogni caso, parla solo francese e ci vuole un’altra ora per spiegare loro che ci serve qualcuno che si esprima in un inglese almeno comprensibile. Il ragazzo che arriva alla fine del secondo round di trattative è stato evidentemente buttato giù dal letto non più di dieci minuti prima, ma l’attesa è ripagata da una dozzina di meravigliosi centrifugati di carota offertici dai nostri ospiti, all’esorbitante cifra di due dollari l’uno. Il dubbio che il ritardo non sia casuale è quantomeno lecito.

Il complesso di Angkor Wat, a un quarto d’ora di strada dal centro cittadino, è ritenuto da molti il più maestoso complesso religioso esistente al mondo; il colpo d’occhio, in effetti, lascia senza fiato, anche quelli che come noi faticano a tenere gli occhi aperti a causa di una stanchezza che al quindicesimo giorno di viaggio inizia ad avere connotati patologici. Quasi impossibile descrivere tutti i templi, o ricordarne i nomi: sono dozzine, induisti e buddisti, costruiti a partire dal X secolo dai re-divinità che hanno dominato il Paese fino all’avvento dei khmer rossi, e la visita dura almeno tre giorni, da mane a sera. Il più stupefacente è comunque Angkor Thom, meglio noto per aver ospitato la trasposizione cinematografica delle avventure di Laura Croft: un immenso edificio costruito intorno all’anno mille e poi dimenticato per qualche secolo, in cui alcuni tra i più maestosi alberi della giungla hanno messo radici penetrando tra i muri e sotto le fondamenta, per uno scenario degno di un film con parecchi effetti speciali. I turisti girano al suo interno più attenti a ricostruire le scene di Thomb Raider che a guardare i reperti storici; le guide li assecondano, suggerendo per le fotografie le pose che furono di Angelina Jolie.

Più stupefacente ancora è constatare l’incuria cui sono abbandonati i luoghi, nonostante, con 60 dollari di costo del biglietto d’ingresso, costituiscano probabilmente la principale voce di entrata del Pil cambogiano: ai turisti è concesso camminare e arrampicarsi ovunque; in alcuni casi, addirittura, le guide consigliano bivacchi e appostamenti per gustarsi il tramonto con birre e sigarette. Abbiamo visto un piccoletto americano, sconvolto dalla noia e dal caldo, divertirsi a lanciare sassi che si sbriciolavano sotto la sua forza, sotto gli occhi assenti di genitori e guide; un vero peccato che i sassi in questione fossero resti di statue e decorazioni risalenti a un migliaio di anni fa. Un po’ come se da noi si salisse sul Colosseo e si giocasse a “Mira anche tu la statua dell’imperatore Adriano”.

Il problema, riflettiamo a cena davanti a un Anok – prelibatezza locale: pesce bollito in curry e servito in foglie di banana – è l’ignoranza devastante: se il 40% dei cambogiani è analfabeta, il restante 60% si limita ad apprendere a memoria le nozioni minime per ricevere dai turisti qualche dollaro in cambio di poche frasi snocciolate sui templi, abbondantemente riportate anche dalla lonely planet. D’altra parte, come spiega la guida, nonostante il (mal)governo rosso, la scuola è tutt’altro che gratuita, e il numero dei cambogiani che si sono spinti oltreconfine per allargare i propri orizzonti, anche solo in Vietnam, è prossimo allo zero. Quando proviamo a chiedere alla nostra accompagnatrice un parallelo tra Angkor Wat e i templi messicani ci guarda senza capire: altamente probabile che non abbia mai sentito parlare del Messico.

[segue, forse]

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On the asian road_part 2

[leggi la prima parte]

La storia del Vietnam, almeno quella degli ultimi 30 anni nota ai più, gira intorno a un fazzoletto di terra, Cu Chi. Per essere esatti, sopra è un fazzoletto di terra e sotto è il più complesso, articolato e claustrofobico sistema di cunicoli mai costruito dall’uomo; basti pensare che, impossibilitati a entrarci per le proprie dimensioni da Rambo, gli americani assoldavano coreani dal formato mignon per andare a stanare i vietcong.
A portarci a Cu Chi, in un’alba assonnata, è Sonny, un saigonese venticinquenne dall’inglese perfetto e, soprattutto, dall’incontenibile bisogno di parlare. Sonda le nostre inclinazioni politiche con discrezione, e poi butta lì: “A Saigon non odiamo gli americani: ce l’abbiamo con loro perché hanno voluto fare la guerra a modo loro e poi ci hanno abbandonati dopo aver fatto casino. Ci hanno lasciato nelle mani dei comunisti”. Tutto il film di un Vietnam finalmente unito dopo aver schiacciato l’invasore americano va in frantumi in cinque minuti, lasciando spazio a un quadro infinitamente più sofferto e complesso. Mi torna in mente il rifiuto degli abitanti di Saigon di chiamare la città Ho Chi Min, come l’ha ribattezzata il generale, e l’occhiata di sdegno rivoltami dalla commessa del negozio cui avevo chiesto la sciarpa tipica dei vietcong da riportare a un amico. Tanto per dissipare ogni dubbio, quando chiedo a Sonny cosa pensa di Hanoi, risponde: “Rubbish”, spazzatura.

La presenza del regime aborrito da Sonny la subodoriamo per la prima volta durante la notte di Capodanno, unici in piazza a tracannare birre che quasi abbiamo costretto un commerciante a venderci, declinando il suo invito a bere Seven Up; solo dopo un po’ ci sfiora il dubbio che consumare alcolici in pubblico possa essere illegale. Non riusciamo ad appurare se in effetti sia così, ma lasciamo la piazza svuotatasi in tre minuti netti dopo lo scoccare della mezzanotte per finire la serata a Pham Ngu Lao, dove americani sbronzi a torso nudo si strusciano contro corpi orientali in modo non proprio sinuoso.
Ancora di più, tuttavia, la dittatura comulista (neologismo appena coniato: crasi di comunista e capitalista) modello cinese, ci si disvela il giorno successivo nella forma esilarante di Mr Ky, il pacioccone cinquantenne toccatoci in sorta come guida sul Mekong.

Basta la sua vista per rimetterci in sesto mentre, con un paio d’ore di sonno alle spalle e l’ansia della malaria a fare da compagna, sudiamo birre sotto un sole cocente. È un ometto in stile Indiana Jones iperefficiente e sempre allegro che ripete metodicamente una decina di frasi con tono alto e sonante; bombardato dalla propaganda, prova a riproporla a noi spiegandoci i miracoli della collettivizzazione dei terreni agricoli nei dintorni del Mekong. “Very, very good policy” è il suo cavallo di battaglia.

Del Mekong affascina il colpo d’occhio; a prima vista, poco o nulla sembra essere cambiato da quando il capitano Willard lo risalì in cerca di Kurtz. Le acque limacciose sono solcate da imbarcazioni piccolissime o molto grandi, che trasportano uomini e merci; stipati in cabina o sdraiati sul ponte, vietnamiti dalla pelle scura dormono scomposti o si guardano intorno senza espressione. Per tutte le popolazioni che vivono sulle sue acque, il Mekong è un immenso mercato, il posto dove comprare e vendere ogni cosa necessaria alla sussistenza; la giungla compare solo a tratti, quando la barca lascia la portata principale per affondare nei rivoli laterali, schiacciati da giunchi, palme immense e un’umidità che si può quasi plasmare con le mani.

Le città cresciute sulle sue sponde hanno ben poco di esotico e molto invece del casino di Saigon (nonostante la zona sia conosciuta tutt’ora come Bassa Cambogia, per l’antica appartenenza allo stato confinante); a stupire è soprattutto la sporcizia: non esistono cestini per rifiuti e ognuno delle migliaia di ambulanti che offrono qualcosa sul ciglio della strada lascia dietro di sé una scia di cartacce, bucce, contenitori oleosi e altre amenità.

L’elemento più autentico e selvaggio del Mekong restano i mercati galleggianti, dove dall’alba alle primissime ore del mattino le popolazioni locali comprano o offrono soprattutto frutti e altri alimenti di prima necessità. Minuscole lance di legno sono sovraccariche di mango, piccoli cocomeri o banane; a governarle e dirigere i traffici spesso sono donne leggere ma ruvide, con i tradizionali cappelli calcati sugli occhi e i modi spicci di chi non conosce formule di cortesia. I loro bimbi si offrono come intermediari con gli acquirenti, specie quando si tratta di turisti pronti come noi a sciogliersi in una compassionevole pietas che invoglia l’acquisto. Mr Ky ci indica due piccoletti intenti a vendere banane, con visi divertiti e grandi sorrisi; tronfio di orgoglio sentenzia: “Vietnamese, hard workers: look, we have the youngest workers in the world, seven years, five years!”.

Di ritorno a Saigon, la sera, ho la confortante sensazione di essere a casa; ci sbattiamo da Pho a mangiare una minestra, in attesa di salire su uno sleeping bus in direzione Mui Ne.

Lo sleeping bus meriterebbe una trattazione a sé: presentatoci dai locali come un grandioso mezzo di locomozione, entra a pieno titolo al primo posto delle aberrazioni asiatiche in cui sono incappata. Trattasi di un pullman di linea in cui al posto dei sedili si trovano una trentina di mini lettini, su cui dormire mentre il mezzo attraversa il Paese da nord a sud (una 40ina di ore circa); utilizzato per lo più da stranieri squattrinati (costa una manciata di dong), è però tarato sulle dimensioni dei “locali”, rendendo il viaggio grottesco per chiunque, inclusa la sottoscritta, abbia misure ai confini della normalità.

La nostra avventura sullo sleeping bus, comunque, comincia con l’autista che ci afferra per la collottola in mezzo alla strada dicendoci di salire, che siamo in ritardo: inutile spiegargli che rispetto all’orario concordato abbiamo in realtà due ore di anticipo. Incapsulati in questi loculi, sulle cui condizioni igieniche è meglio sorvolare, constatiamo in fretta che il primo problema sarà capire quando si arriva a destinazione; con un calcolo approssimativo dei chilometri mettiamo una sveglia alle due di notte. Impossibile comunque chiudere occhio: la tizia sdraiata davanti a noi, credo una giapponese ma potrebbe essere anche vietnamita, ha la febbre alta, trema, suda ed emette strani versi con il naso. Appunto sull’agenda: “Al ritorno informarsi sulla febbre equina”.

Quando la sveglia suona, i nostri compagni di viaggio stanno per lo più dormendo e a farci compagnia sono solo i neon fluorescenti che scorrono lungo il tetto dell’autobus: inquietanti. Ci vuole un’intensa gestualità per far capire al conducente dove dobbiamo scendere e, una mezz’ora dopo, ci scarica in mezzo a una strada deserta; per fortuna, nonostante la carenza di sonno, i nostri riflessi sono migliori dei suoi e ci accorgiamo in breve che ci ha mollato nel posto sbagliato. Lo rincorriamo, carichi di zaini, pacchi e sacchetti, e riusciamo a farci riaprire le porte del bus. Dopo un quarto d’ora ci fa nuovamente segno di scendere e questa volta l’insegna dell’albergo corrisponde al nome previsto; peccato però che sia chiuso. Ci vogliono una telefonata intercontinentale e una violazione di domicilio a farci aprire il cancello dalla lasciva vietnamita addormentatasi nella nostra attesa. Il che spiega perché trascorriamo i due giorni successivi schiantati in spiaggia, muovendoci al più per ordinare grigliate di aragoste e gamberoni nella capanna-ristorantino dietro le nostre spalle.

[segue]

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On the asian road_part 1

[avviso ai lettori: il tempo di lettura di questo post è lunghetto. Non lamentatevi, l’ho anche diviso in due parti!]

Sette aerei in venti giorni, quindici chili di zaino sulle spalle, una decina di sveglie all’alba, due notti insonni, centinaia di chilometri su bus scalcinati, la pelle divorata dagli insetti. Tutto per via di una sola persona: il dannato colonnello Kurtz. O, meglio, per quei sette indimenticabili minuti in cui anni fa mi palesò la sua esistenza: le tastiere di Manzarek sull’attacco di The End, il napalm che incendia la giungla, le pale degli apache che vanno in dissolvenza su quelle dei ventilatori in una stanza spoglia, Martin Sheen perso nel delirio di una generazione intera.

Saigon. Quando ero qui volevo essere là. Quando ero là non potevo pensare ad altro che a tornare nella giungla”.

Il mio immaginario del Vietnam è nato lì, con l’attacco di quel capolavoro inarrivabile della cinematografia che è Apocalypse Now. Un film custode di una storia emblematica, ma prima ancora epigono di un’epoca e di un mondo. Dopo essermi drogata della fotografia di Coppola, è arrivato tutto il resto: Dispacci, Micheal Herr, il libro più bello mai letto sulla guerra e probabilmente uno dei primi dieci in assoluto. Le fotografie di Robert Capa, morto sotto il fuoco di Charlie. Volumi di storia da comporre come un puzzle di geopolitica.

Per arrivare a Saigon siamo passati da Bangkok: meno caro il biglietto, più facile l’adattamento. Bangkok si colloca al confine tra il secondo e il primo mondo: immenso contenitore di uomini, denaro, povertà, acque lerce, mega alberghi, traffico indomabile, templi mozzafiato. Appena atterrati l’umidità e lo smog segano le gambe: ci vogliono un paio di giorni per adattarsi, e anche così a metà giornata la stanchezza appesantisce i pensieri. Dare un’identità a Bangkok è difficile: rigogliosa come la vegetazione che cresce sulle sponde del Chao Phraya, il fiume che la attraversa, è un immenso crocevia di traffici e uomini e mezzi. I grattacieli e l’avveniristico skytrain distano una manciata di minuti da quartieri brulicanti di topi e uomini, ugualmente dimorati in marciapiedi affollati e vicoli stretti. Enormi pentoloni a ogni angolo della strada friggono animali e vegetali di qualsiasi provenienza: l’odore si attacca ai vestiti e alla pelle, satura l’aria umida, fa girare la testa. Nello stesso spazio in cui storpi chiedono l’elemosina e poliziotti distratti fumano oleosi sui propri motorini, i turisti si accalcano per vedere alcune delle pagode più belle di tutta l’Asia: preziosi gioielli di cura maniacale le cui tesserine brillanti splendono da lontano.

I larghi viali coronati da improbabili monumenti di architettura fascista – il più noto quello alla Democrazia, a dispetto del fatto che i thailandesi continuano a essere osservati dall’alto da un Re-divinità di cui non si può parlare male – la fanno assomigliare a tratti a Pyong Pen; il traffico insopportabile all’olfatto e all’udito allontanano però il paragone.

A Bangkok ci si ambienta lentamente, con la fatica connaturata in ciò che per natura è sfuggevole e complesso; Saigon, invece, ti accoglie come uno schianto, con la sincerità di una semplicità che è tutt’altro che ordine.

Siamo arrivati con un volo all’alba; fuori dall’aeroporto, in attesa di un taxi, bandiere rosse con la stella gialla sventolavano essenziali, simili alle palme che fanno loro da cornice. La prima impresa è attraversare la città: dei dieci milioni di abitanti, sette circolano unicamente su motorini. Asserragliati su un van, li abbiamo guardati sfilare per le strade come uno sciame di api: un fiume straripante, che tracima sui marciapiedi, non conosce semafori o segnaletica, sensi di marcia e attraversamenti pedonali. Il motociclo è per gli abitanti di Saigon quello che una volta era il mulo; sopra caricano qualsiasi cosa, oltre i limiti imposti dalle leggi della fisica e del buon senso: bombole del gas, televisori, scatoloni, cassette di frutta, un numero di passeggeri superiori a quelli di un’utilitaria. Passeggiando in centro abbiamo contato 5 persone su un 125: un record battuto solo dallo scooter con sopra tre tizi letteralmente ricoperti da scatole di uova.

Seconda sfida attraversare la strada. Per i saigonesi le strisce, scarse e superflue, sono un decoro del manto stradale: loro tirano dritto, sempre, suonando il clacson per segnalare la propria presenza. Al pedone spetta l’onere di schivarli, dopo aver trovato il coraggio di buttarsi in mezzo alla strada. Dicono che la teoria per uscirne senza ossa rotte sia non guardare mai nella loro direzione, perché se percepiscono che ti stai preoccupando dell’attraversamento non si sentono costretti a fermarsi; altrimenti, invece, mettono un piede per terra quando arrivano a due centimetri da te per non asfaltarti. Il coraggio per provare la teoria ci è mancato; piuttosto, un paio di volte dei bambini sghignazzando ci hanno preso sotto braccio per condurci dall’altro lato della strada.

Nonostante il rumore e lo stordimento dato dal traffico, il primo pensiero che ho fatto su Saigon è che fosse una città essenziale: rispetto a Bangkok, asciugata da ogni ridondanza, con un semplicità che ammalia. La passione, comunque, mi ha colto struggente una volta giunti a Pham Ngu Lao (si pronuncia Fanculao: sorvolo sulle risate adolescenziali che ci ha procurato chiedere indicazioni stradali), il quartiere degli stranieri dove abbiamo trovato alloggio. Per le strade ragazzini vietnamiti offrono con noncuranza ai passanti oppio, estasi, eroina o cocaina; i magnaccia scampanellano sulle biciclette per segnalare l’offerta di prostitute; gli americani si allungano al sole nei tavolini dei bar d’angolo, sorseggiando birra fin da mezzogiorno. Dagli anni 60, quando i soldati lenivano con Lsd e alcol le atrocità della giungla nella città assediata, a Fanculao mi è sembrato non essere cambiato nulla: un fermo immagine di una delle pellicole di Oliver Stone proiettato sulla quotidianità. Mi sono sentita immediatamente a casa, come se il coincidere dell’immagine di Siagon costruita su libri e film con quella che mi scorreva sotto agli occhi me la rendesse immediatamente familiare e comprensibile.

Tutto intorno a Pham Ngu Lao la città brucia di traffici: vendere, non importa cosa, è la principale occupazione dei vietnamiti. Al mercato di Cholon, territorio di influenza cinese, si cammina stretti tra centinaia di chioschi grandi tre o quattro metri quadrati e con la più alta densità di oggetti mai vista: dalle caramelle ai fermagli per capelli, qualsiasi cosa è offerta in decine di migliaia di riproduzioni identiche. I venditori non fanno caso ai pochissimi turisti; chiacchierano tra di loro sdraiati per terra, cercando un centimetro quadrato dove ripararsi dall’afa. Un ragazzo giovane ci ha fermato, sperando di rifilarci qualcosa: “Where are you from?” “Italy” “Oh, so nice, do you know Abbey Road?”. Che ci vuoi fare, tra i Beatles e Toto Cotugno la sfida è persa in partenza.

[segue].

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