Archive for December 9th, 2009

you can feel it

Non ho mai creduto alla teoria secondo cui gli oggetti parlano. Che si tratti di un quadro, di un abito o di un libro, sono troppo pragmatica e amante del razionale per pensare che un campo bioenergetico si crei tra te e l’oggetto della contemplazione, intimandone l’acquisto, lo scorrere di lacrime, l’urgenza del possesso e varie ed eventuali. Semplicemente, direi, c’è un gusto del bello o una fascinazione per alcuni soggetti che tutti abbiamo a guidare le nostre scelte.

È seguendo questo criterio che qualche mese fa ho scrollato la polvere dalla copertina di un libro sepolto in una bancarella di Covent Garden, London town. Decine di microscopici puntini brillanti splendevano sulla cover bianca, e una sola scritta, pulita, recitava: A million little pieces. Bingo. Sul retro, un paio di commenti sbalorditivi del New Yorker e di Bret Easton Ellis avrebbero convinto ad acquistarlo anche un analfabeta.

Me lo sono portato a casa e ho aspettato qualche settimana prima di prenderlo in mano. La sera che è successo, però, non sono più stata in grado di mollarlo. Ero in partenza per la Germania, con un aereo alle 7 am: alle 4 stavo ancora leggendo sotto le coperte. Ho letto in aereo, rannicchiata vicino al finestrino, con qualche lacrima a scorrere furtiva. Ho letto dopo l’intervista, sul taxi, la sera in albergo, la mattina prima di ripartire. Ho letto, e mentre leggevo assorbivo per osmosi un modo di pensare e di essere forti e coraggiosi; un dolore che è rinascita; una rinascita che è paura.

James Frey usa pochissima punteggiatura. I suoi libri sono sussurri e grida; le parole si accavallano sulla pagina, si rincorrono, accelerano d’improvviso come un respiro affannoso. James Frey usa parole semplicissime per dire cose enormi, come la morte, l’amicizia e l’amore. James Frey, soprattutto, è quello che scrive: la storia che racconta – almeno in A million little pieces – è quella incredibile della sua vita.

Una vita che inizia a sfasciarsi a 13 anni con la dipendenza dagli alcolici e diventa dolore allo stato puro intorno ai 17, quando alcol, cocaina e crack prendono il sopravvento. Il libro è la storia di un recupero che inizia sfiorando la morte, e che la accarezza ancora molte e molte volte nel suo dipanarsi. È una storia che passa attraverso la galera, incontri importanti, un talento da scoprire, un istituto di riabilitazione, amici poco raccomandabili. È, infine, un percorso, in cui la traiettoria di James – protagonista nonché autore – finisce con il coincidere con quella di chi legge, in un equilibrio delicato di messaggi e attese. A patto di volerli o saperli cogliere.

Frey è stato per me lo stesso buco nero di emozioni che fu Tabucchi alla sua scoperta, moltissimi anni fa: il desiderio quasi morboso di nurtirmi di parole, di dischiudere l’anima, di cadere a ogni pagina e scoprire come rialzarsi a quella successiva. Frey mi ha dato alcune risposte, che forse erano lì da sempre, ma ancora non avevo afferrato. Insomma, mi ha parlato.

Non è stato sufficiente per cambiare la mia opinione circa il dialogo con gli oggetti, ma abbastanza per comprare a scatola chiusa qualsiasi cosa abbia scritto dopo. In aereo ieri ho finito My friend Leonard, proseguimento del primo.

Oggi mi sento a rota, orfana di qualcosa. Ma ricca, calma, distesa.

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