Archive for December 2nd, 2009

Lasciate ogni speranza voi ch’entrate

PierLuigi Celli, direttore dell’Università Luiss di simpatie sinistrorse, ha pubblicato qualche giorno fa una lettera che ha destato grande scalpore.  Fornendo giustificazioni tanto vere quanto non completamente rilevanti, Celli raccomandava a cuore aperto al proprio figlio  – e per traslato a tutti i giovani – di fare quello che chiunque può già fa: impacchettare le proprie cose e darsela a gambe. In Italia non c’è futuro, lasciate ogni speranza e cercate il vostro destino all’estero: questo il sunto. Non propriamente una novità, ma di un certo impatto detto da chi rappresenta l’istruzione e il viatico al mondo del lavoro.

Alla sua lettera – accorata e un po’ stucchevole, secondo il mio sindacabile parere – ha risposto oggi Benedetta Tobagi, 32enne, candidata nelle liste del PD alle ultime provinciali milanesi ma, soprattutto, figlia del Walter firma di punta del Corsera assassinato dalla Brigata XXVIII Marzo nell’80. La Tobagi ha risposto dicendo, per sommi capi, che è sbagliato incitare a scappare: chi ha il coraggio resta e resiste, rovescia la situazione del Paese, combatte con le unghie e con i denti. All’estero – continua – ci si vada per fare esperienza e a divertirsi, ma la nostra casa è l’Italia.

Lo scambio, pur esaltato da molti, mi pare un perfetto esempio di cosa non va nel Paese, condensato in due missive ai giornali apparentemente cariche di buone intenzioni se non addirittura di rimedi ai mali collettivi.

La prima cosa che mi ha fatto saltare la mosca al naso – non è vero, non è la prima, ma siccome la prima è troppo personale la faccio scalare in graduatoria – è l’ipocrisia di Celli, che si trincera dietro a fatti inconfutabili ma non certo vero cuore del malessere dell’italiano (la lentezza della burocrazia, per esempio). Mi è sembrato che per non addentrarsi in uno spinoso ginepraio politico Celli tergiversasse, indicando fattori reali come elementi decisivi e sorvolando su altri che decisivi lo sono davvero.

Soprattutto, però, Celli trascura un dato: andare all’estero, oggi come ieri come domani, è un privilegio per pochi. Non bastano una laurea, un master e la conoscenza di alcune lingue straniere (tre elementi, in ogni caso, non proprio alla portata di tutti): ci vuole anche una solidità economica – che di certo non può essere prerogativa del 25enne alle prime armi – per mantenersi fuori confine; ci vuole la fortuna di incontrare le richieste di un mercato del lavoro che non si conosce (a meno di non diventare tutti ingegneri o venditori, i cui servigi sono richiesti un po’ ovunque: stiamo però allora consigliando ai ragazzi di rinunciare a tutte le professioni di ispirazione “umanistica?”); ci vuole il supporto, finanziario e morale, della famiglia d’origine. Insomma, la strada indicata da Celli è quella da sempre riservata alla buona borghesia, destinata a produrre nuova borghesia. Una scelta di classe, in qualche modo.

La risposta della Tobagi, per contro, è figlia di un idealismo che non ha nulla a che vedere con le condizioni reali del Paese. Resistere per rovesciare le condizioni: ma di che stiamo parlando? Lo sa la Tobagi che in Italia prima di un contratto di assunzione ci vogliono 12 mesi di stage gratuiti e tre anni di cococopro a cinque, seicento euro mensili? Lo sa che durante stage e cococopro i datori di lavoro ti trattano come un dipendente a tutti gli effetti salvo non darti alcuna delle tutele che spettano al dipendente? Lo sa la Tobagi quanti sono i posti disponibili oggi in Italia per professioni qualificate e quante le domande? Lo sa quali sono le barriere all’ingresso in moltissimi settori?

Sto su un campo che conosco – e che, almeno per alcuni versi, immagino conosca anche lei – il giornalismo. In Italia ci sono 180mila giornalisti professionisti per 17mila posti da assunto. Diventare giornalista professionista significa, oltre a pagare un obolo di 1.000 euro circa all’ordine nazionale (corsi obbligatori di formazione, tasse di iscrizione all’esame, libri da comprare ecc ecc.), che qualcuno ti abbia assunto come praticante nei due anni precedenti: un’ipotesi così remota che per colmare il vuoto sono state istituite delle scuole di giornalismo, dove con la modica cifra di 15mila euro e due anni di alterna frequenza chiunque può comprarsi l’accesso ai banchi d’esame.

Detto questo – e finalmente arrivo al punto – il 95% dei giornalisti professionisti non avranno mai la soddisfazione di vedere un proprio scritto sulla prima pagina di Repubblica. Nessuno di noi, svegliandosi una mattina con l’impellente desiderio di rispondere a Celli, potrebbe pensare di recapitare a Ezio Mauro 5mila battute pulite pulite, destinate al taglio basso dell’indomani. Benedetta Tobagi – che non conosco e cui non voglio mancare di rispetto, ma che calza perfettamente come esempio – lo può fare perché suo padre quasi 30 anni fa è stato assassinato dai terroristi. Per quello lo può fare: perché si chiama Tobagi.

E torniamo così al principio. Quanta voglia avrei io – giornalista professionista alla soglia dei 30 anni, cresciuta tra l’America, la Spagna e l’Italia – di andare all’estero a lavorare? Tantissima. Quante possibiltà ci sono oggi che un quotidiano assuma dei corrispondenti? Zero. Ma non zero per dire: uno zero certificato dallo stato di crisi che blocca qualsiasi assunzione per due anni. Quante possibilità ci sono che questo mio post finisca domani sulla prima di Repubblica? Praticamente zero. Forse perché non me lo merito, in ogni caso di certo Ezio Mauro non mi conosce, nonostante di Cv al suo giornale ne abbia scritti miloni.

Ecco allora quello che Celli e la Tobagi non dicono: a noi non manca la voglia e il coraggio di provare. A noi hanno tolto la possibilità di provare. I 60enni che oggi ci consigliano di lasciare il Paese sono gli stessi che ne hanno sfruttato ogni possibilità, hanno fatto carriera, percepito immense retribuzioni, che possono contare su solide e sicure pensioni. Sono gli stessi il costo del cui stipendio impedisce di assumere giovani; sono gli stessi che danno buoni consigli avendo dato il cattivo esempio. Io da questa gente mi sento presa in giro; vorrei scriverlo sui muri: “Ci avete rubato il futuro”. Forse non era colpa vostra, forse non lo sapevate, forse non lo avete fatto intenzionalmente: ma siccome oggi non siete disposti a staccarvi dalle poltrone per fare posto a noi, almeno smettetela di darci saggi consigli.

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1969/1972

C’è una parte della storia d’Italia da cui sono profondamente coinvolta; curiosamente, coincide con il periodo più nero della recente vita repubblicana.

Sono gli anni caldi che si aprono con la strage di Piazza Fontana – 12 dicembre 1969 – e si chiudono con l’omicidio Calabresi, 1972. È l’inizio di quel vortice che porterà agli anni di piombo; che apre lo stragismo di Stato e il peccato originario di questo Paese. Sono gli anni di una Milano che non ho visto, ma che immagino: una Milano solida, ancora non annacquata nella sua versione da bere, una Milano che confina con la Staliningrado d’Italia (Sesto San Giovanni, roccaforte del Pci e del movimento operaio), una Milano di tensioni politiche e rivoluzionarie. Sono gli anni, infine, in cui si consumano vicende dolorose, drammi individuali che diventano storia: Pinelli, Calabresi.

Il merito di avermi fatto scoprire il valore di quel momento e dei suoi protagonisti (che prima liquidavo con il verso di una canzone dei MCR che oggi non riesco più ad ascoltare: “Anarchici distratti che cadono giù dalle finestre”) è di Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato e giornalista, che ha pubblicato il libro forse più toccante che abbia mai letto: Spingendo la notte più in là.

Con la forza e la dignità di chi vuole trasformare il dolore individuale in riflessione collettiva, Calabresi racconta del padre, di Pinelli, di entrambe le famiglie, dei rapporti che li legavano; racconta della sua vita e di quella dei due fratelli, rimasti orfani e con una madre appena 27enne: il più grande, Mario, aveva allora tre anni e l’ultimo ancora non era uscito dal calduccio del ventre materno.

Tratteggia, in modo caldo e sincero, mai volutamente o casualmente patetico, la storia del suo dramma familiare che si fa dramma di un Paese. È un libro che andrebbe letto nelle scuole, regalato ad amici e parenti, distribuito durante le manifestazioni; io ne ho acquistate un paio d’anni fa una dozzina di copie, e le ho donate a molte persone che desideravo lo leggessero.

La moglie di Pinelli, l’anarchico ingiustamente accusato della strage di piazza Fontana e morto in circostanze mai chiarite con un volo dalla stanza del commissariato dove era interrogato, non ha scritto nulla, ma non ha mai smesso di chiedere la verità. Nel 2009 il presidente Napolitano, con un gesto che restituisce dignità alle istituzioni, ha invitato sia lei che la moglie di Calabresi al Quirinale, e ha inserito Pinelli nell’elenco delle vittime di piazza Fontana. A 80 anni passati, Licia Pinelli rilascia poche interviste in occasione della ricorrenza della strage, e con lucidità e compostezza non smette di chiedere che sia fatta chiarezza sulla fine del marito.

Quello che colpisce nelle due famiglie, Pinelli e Calabresi, che la storia ha legato loro malgrado, dipingendole come contrapposte frontalmente, è invece la profonda condivisione, fatta di umanità e dignità rarissime. Sentendole parlare si capisce cosa siano la rettitudine, la tenerezza, la compostezza.

In un Paese sopraffatto dal ciarpame, politico, comunicativo e morale, il messaggio dei Pinelli e dei Calabresi entra nel cuore e sedimenta. Fa crescere un desiderio di cambiamento che non è fuga dal reale, ma urgenza di penetrarlo e stravolgerlo.

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